Cass. sentenza n. 30824 del 15.06.2006
OMISSIS
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
OSSERVA
1. Con ordinanza 20 dicembre 2005 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Salerno ha applicato a B. Y., T.S. e A.R. la misura cautelare della custodia in carcere per il delitto di cui all'art. 270 bis c.p. (per avere il primo costituito e gli altri fatto parte di una cellula terroristica ispirata agli ideali e ai metodi della lotta armata praticata dall'organizzazione eversiva algerina Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (Gspc); sino al 15 novembre 2005) e per l'ulteriore reato di cui agli articoli 110 e 482 c.p., in relazione agli articoli 476, 477 e 483 c.p., e L. n. 15 del 1980, art. 1 (per avere, in concorso tra di loro e con altri, contraffatto numerosi documenti di identità, agendo per finalità di terrorismo, anche internazionale). La misura è stata confermata, con ordinanza 16 gennaio 2006, dal Tribunale del riesame di Salerno che, ritenuto il delitto associativo commesso in Napoli, ha contestualmente dichiarato la propria incompetenza per territorio con trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica di detta città.
Ha osservato il tribunale che: a1) il carattere terroristico del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, costituito originariamente in Algeria ma attivo su scala internazionale con la finalità di realizzare la Jihad e collegato agli obiettivi e alle strategie dell'organizzazione terroristica Al Quaeda, nonchè l'esistenza in Italia di una attiva cellula o diramazione di tale organizzazione risultano da una pluralità di elementi. Tra essi: a) l'inclusione del Gspc nella lista europea di gruppi terroristici stilata con il regolamento n. 881/2002 del Consiglio dell'Unione europea (coincidente con analoga lista stilata dall'Onu) e con specifico comunicato del Comitato di sicurezza finanziaria del Ministero dell'economia del nostro Paese; b) il fatto notorio, comprensivo, per quanto riguarda l'organizzazione de qua, di prassi ed episodi "che, per la loro gravità e rilevanza internazionale, possono dirsi acquisiti al patrimonio comune di conoscenze della collettività"; c) le dichiarazioni degli stessi imputati i quali, nel corso degli interrogatori resi a Salerno e a Napoli, "nel riferirsi ad alcune conversazioni intercettate nelle quali vi era un esplicito riferimento al Gspc e all'attività terroristica posta in essere dallo stesso, riconoscevano l'esistenza del suddetto gruppo estremistico operante nel loro Paese d'origine, seppur prendendo le distanze dall'opera terroristica dello stesso"; 3) il contenuto delle numerose e univoche conversazioni intercettate in un prolungato lasso di tempo, che documentano in diretta l'attività di un'ampia e articolata rete (operante principalmente a Napoli, ma anche a Brescia, Vicenza e Milano) di sostegno e appoggio logistico, organizzativo ed economico a membri del Gspc responsabili di atti terroristici in Europa e nel mondo arabo; d) i ripetuti contatti degli imputati e di altri compartecipi (accertati dalla polizia giudiziaria mediante pedinamenti e attività di osservazione) con esponenti del Gspc operanti in diversi stati esteri; e) la minuziosa e analitica ricostruzione della rete in questione effettuata nel procedimento a carico di G. e altri (confermata in sede di legittimità con sentenza 9 febbraio - 16 marzo 2005 della seconda sezione penale di questa Corte). Tali elementi forniscono, da un lato, la conferma della matrice e dell'attività terroristica del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento e, dall'altro, la prova dell'esistenza in Italia di una cellula, dotata di autonoma struttura organizzativa, preposta a fornire assistenza, collaborazione e aiuto a esponenti del movimento direttamente coinvolti in azioni terroristiche (procurando loro, tra l'altro, ospitalità, denaro, titoli di viaggio e documenti falsi) nonchè a organizzare azioni dirette (rimaste, allo stato, a livello di progetto); a2) la natura e il carattere della descritta cellula italiana risultano: a) dalla attività degli associati che, secondo quanto accertato nel presente procedimento e risultato in indagini parallele, detenevano materiale ideologico eversivo e strumenti di propaganda della Jihad, provvedevano all'assistenza legale ed economica ai correligionari arrestati, promuovevano raccolte di denaro in favore di combattenti in Cecenia, Afghanistan e Iraq, fungevano da punto di riferimento e supporto organizzativo per numerosi estremisti islamici intenzionati a raggiungere l'Afghanistan, professavano la personale volontà di combattere con mezzi violenti e fino alla morte e al martirio, intrattenevano rapporti con soggetti "implicati o indagati in specifici fatti di attentato o di eversione o con guerriglieri islamici", programmavano attentati con esplosivi sul territorio italiano e fuori dello stesso; b) da un precedente conforme accertamento giudiziale, cui si riferisce la già citata sentenza 9 febbraio - 16 marzo 2005, G. e altri, di questa Corte (che ha ritenuto l'attività della cellula napoletana del Gspc rientrante nella fattispecie di cui all'art. 270 bis del codice penale). Alla stregua di quanto precede la cellula italiana del Gspc va considerata autonoma associazione terroristica rientrante nella previsione dell'art. 270 bis del codice penale, che è fattispecie delittuosa di pericolo presunto diretta, per consolidata giurisprudenza (cfr. per tutte Cass., sez. 6, 13 ottobre 2004, Laagoub e altro), ad "apprestare tutela contro uno specifico programma di violenza e contro coloro che a tale programma aderiscono proponendosi il compito di realizzare atti di violenza con finalità di eversione dell'ordine democratico", intendendosi per programma l'insieme di "propositi concreti e attuali di violenza e non posizioni meramente ideologiche che, di per sè, ricevono tutela proprio dall'ordinamento democratico e pluralistico che contrastano"; a3) la partecipazione all'organizzazione de qua del T. risulta: a) dal contenuto di numerose conversazioni intercettate (specificamente indicate nell'ordinanza) nelle quali, tra l'altro, l'imputato, parlando con altri compartecipi, dopo aver espresso compiacimento per la strage di Sharm El Sheik e per altri attentati terroristici, auspicandone il ripetersi e mostrando di condividere appieno il metodo terroristico, parla esplicitamente della necessità di reperire dell'esplosivo (TNT) ricollegando tale condotta con l'"ingresso in luoghi turistici"; b) dalla frequentazione con altri soggetti arrestati in varie parti d'Italia per il medesimo reato associativo e, in particolare, di B.Y. (promotore e organizzatore della cellula), con il quale il T. aveva, anzi, condiviso l'espatrio clandestino dall'Algeria e, poi, la permanenza in Siria, Turchia e Grecia prima di stabilirsi in Italia; c) dal concorso nell'attività di procacciamento di documenti falsi per connazionali (ammesso dallo stesso T., seppur in termini ridotti e limitatamente a un unico episodio); d) dalla ammissione del coimputato A.R., a commento di una intercettazione telefonica, che il T. e il B.Y. (in allora conviventi nello stesso alloggio) erano abitualmente definiti, da lui e dal comune amico S.K., come "terroristi"; d) dalla fuga sul tetto dello stabile della propria abitazione in occasione di una perquisizione effettuata l'8 ottobre 2004 (evidentemente riconducibile al timore dell'accertamento di un coinvolgimento in fatti di rilevanza penale, essendo del tutto illogico il dedotto timore di espulsione, stante la regolarità del permesso di soggiorno). Le condotte descritte, lungi dall'essere - come sostenuto dalla difesa - mera espressione verbale di idee eversive o di radicalismo violento, rivelano la partecipazione a una "attività di ampio respiro, tesa alla elaborazione di azioni aggressive e vendicatrici contro soggetti considerati infedeli o, quantomeno, a proporsi da supporto ideologico, logistico e materiale di coloro che quelle azioni hanno il compito di portare a compimento". 2. Ha proposto ricorso il T. deducendo: b1) violazione di legge per avere il tribunale ritenuto l'esistenza e l'operatività di una associazione terroristica "della cui consistenza si dubita nella parte in cui non vi sono in atti elementi da cui si evinca una attuale e concreta progettualità, in Italia o all'estero, di attività terroristiche o eversive"; b2) violazione di legge e mancanza e illogicità della motivazione nella parte in cui l'ordinanza ritiene provata la partecipazione di esso ricorrente all'associazione de qua, posto che: a) "oltre a proclami verbali ispirati da mero fanatismo, non vi è alcun elemento fattuale da cui possa ritenersi, neppure in via indiziaria, tale partecipazione"; b) l'unico elemento sintomatico in tal senso potrebbe rinvenirsi nella frequentazione, risalente nel tempo, con il B., il quale peraltro "non è indagato in specifici fatti di attentato"; b3) violazione di legge nella parte in cui il giudice del riesame ha ritenuto la condotta di esso ricorrente idonea a integrare il reato associativo e non, a tutto concedere, l'ipotesi di assistenza agli associati di cui all'art. 270 ter del codice penale o di favoreggiamento personale di cui all'art. 378 c.p..
Il Procuratore generale ha concluso come in epigrafe.
3. Le questioni prospettate nel ricorso - riguardante, come già precisato, il solo reato associativo e non anche il delitto di falso documentale per cui pure la misura cautelare è stata emessa - sono essenzialmente tre: c1) la struttura e gli elementi costitutivi del delitto di cui all'art. 270 bis del codice penale (motivo sub b1); c2) la congruità degli elementi in forza dei quali la cellula operante in Napoli del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento è stata ritenuta associazione terroristica ai sensi dell'art. 270 bis del codice penale (motivi sub b1 e b2); c3) l'idoneità probatoria degli elementi indicati a dimostrazione della partecipazione del ricorrente alla associazione de qua (motivi sub b2 e b3).
3.1. Quanto alla prima questione, il principio di diritto affermato dal ricorrente secondo cui per l'esistenza della fattispecie delittuosa di cui all'art. 270 bis del codice penale, pur costruita come reato di pericolo, non è sufficiente l'adesione a una astratta ideologia (per quanto odiosa e brutalmente manifestata) ma occorre la predisposizione di "un concreto progetto di azioni eversive", ancorchè non realizzate, è certamente esatto. E', infatti, giurisprudenza consolidata, da un lato, che la fattispecie di cui all'art. 270 bis del codice penale si diversifica dagli altri reati associativi per le finalità perseguite ma non anche per la struttura (così, da ultimo, Cass., sez. 1, n. 35427/05, 21 giugno - 30 settembre 2005, Drissi) e, dall'altro, che le eterogenee realtà gravitanti nell'area di riferimento del terrorismo e della sovversione, per assumere rilevanza penale, devono essere caratterizzate "non tanto, o non solo, dal disegno di abbattere le istituzioni democratiche come concezione, quanto dalla effettiva pratica della violenza come metodo di lotta politica, dall'alto livello di tecnicismo delle operazioni compiute, dalla capacità di reclutamento nei più disparati ambienti sociali" (Corte costituzionale, sentenza n. 15 del 1982). In altri termini, "il reato di cui all'art. 270 bis del codice penale (associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico), è un reato di pericolo presunto, per la cui configurabilità occorre, tuttavia, l'esistenza di una struttura organizzata, con un programma comune fra i partecipanti, finalizzato a sovvertire violentemente l'ordinamento dello Stato e accompagnato da progetti concreti e attuali di consumazione di atti di violenza. Ne consegue che la semplice idea eversiva, non accompagnata da propositi concreti e attuali di violenza, non vale a realizzare il reato, ricevendo tutela proprio dall'assetto costituzionale dello Stato che essa, contraddittoriamente, mira a travolgere" (Cass., sez. 1^, 11 maggio - 20 giugno 2000, procuratore generale in proc. Paiano e altri, riv. n. 216253; nello stesso senso già Cass., sez. 1, 7 aprile - 10 agosto 1987, Angelici, riv, n. 176516 e, da ultimo, Cass., sez. 1, Drissi, cit.). Esatto il principio affermato dal ricorrente è, peraltro, infondata la doglianza posto che: d1) tale concezione del delitto associativo corrisponde a quella abbracciata nell'ordinanza impugnata nella quale, come si è detto, si afferma testualmente che "l'associazione con finalità di terrorismo ai sensi dell'art. 270 bis del codice penale è fattispecie delittuosa di pericolo presunto diretta ad apprestare tutela contro uno specifico programma di violenza e contro coloro che a tale programma aderiscono proponendosi il compito di realizzare atti di violenza con finalità di eversione dell'ordine democratico, intendendosi, peraltro, per programma l'insieme di propositi concreti e attuali di violenza e non posizioni meramente ideologiche che, di per sè, ricevono tutela proprio dall'ordinamento democratico e pluralistico che contrastano"; d2) gli elementi ritenuti dal giudice della libertà dimostrativi dell'esistenza, nel caso di specie, di una associazione con le caratteristiche descritte non sono oggetto di specifica contestazione (nella loro idoneità probatoria) da parte del ricorrente, con conseguente vizio di genericità del ricorso ai sensi dell'art. 581, lett. c, del codice di rito.
3.2. Quanto alla seconda questione, gli elementi in forza dei quali il tribunale del riesame ha ritenuto che la cellula de qua integri una associazione terroristica ai sensi dell'art. 270 bis del codice penale sono, come si è sopra precisato, l'inclusione del Gspc (di cui detta cellula è, in qualche modo, diramazione) nelle liste di gruppi terroristici stilate dal Consiglio dell'Unione europea e dal Comitato di sicurezza finanziaria del Ministero dell'economia del nostro Paese (confermata dalle dichiarazioni degli stessi imputati che, pur prendendone le distanze, hanno riconosciuto il carattere terroristico dell'organizzazione), un precedente accertamento giudiziale in tal senso e, soprattutto, le risultanze delle indagini svolte nel presente procedimento e in indagini parallele, da cui si evince che gli aderenti alla cellula detenevano materiale ideologico eversivo e strumenti di propaganda della Jihad, provvedevano all'assistenza legale ed economica ai correligionari arrestati, promuovevano raccolte di denaro in favore di combattenti in Cecenia, Afghanistan e Iraq, fungevano da punto di riferimento e supporto organizzativo per numerosi estremisti islamici intenzionati a raggiungere l'Afghanistan, professavano la personale volontà di combattere con mezzi violenti e fino alla morte e al martirio, intrattenevano rapporti con soggetti "implicati o indagati in specifici fatti di attentato o di eversione o con guerriglieri islamici", programmavano attentati con esplosivi sul territorio italiano e fuori dello stesso. Di tali elementi il ricorrente contesta la congruità probatoria affermando che da nessuno di essi di evince "una attuale e concreta progettualità, in Italia o all'estero, di attività terroristiche o eversive". L'assunto è, nella sua apodittica generalizzazione, infondato. Se, infatti, è esatto il rilievo secondo cui il giudizio sulle caratteristiche e finalità di una organizzazione non può essere affidato a elenchi di formazioni ritenute terroristiche elaborati, per l'applicazione di misure di prevenzione, da governi di singoli stati o da organismi internazionali (Cass., sez. 1, Drissi, cit.), posto che ciò introdurrebbe nel sistema una sorta di anomala "prova legale" e trasformerebbe l'art. 270 bis del codice penale in una norma penale in bianco, con evidente violazione dei principi di legalità e di separazione dei poteri, è evidente la specificità e la concretezza degli altri elementi indicati: non tutti egualmente sintomatici (che taluni sono, in astratto, suscettibili di interpretazioni alternative) e tuttavia dotati, allo stato degli atti e in attesa degli ulteriori sviluppi delle indagini, di indubbio valore indiziante e, in ogni caso, privi di contestazioni ad hoc in base ad elementi e letture che solo l'imputato potrebbe fornire.
3.3. L'ultima questione proposta riguarda l'idoneità probatoria degli elementi indicati a dimostrazione della partecipazione del ricorrente alla cellula de qua, occorrendo evitare - per usare l'espressione utilizzata nel ricorso - "che l'anticipazione della soglia di punibilità si traduca in persecuzione delle idee o di posizioni ideologiche, individuando il discrimine tra adesione ideologica al radicalismo fondamentalista e partecipazione alla associazione terroristica". E', infatti, giurisprudenza consolidata che, al fine della prova della partecipazione di un indagato al reato associativo, non vale fare riferimento all'adesione psicologica o ideologica al programma criminale, ma la dichiarazione di responsabilità necessita di un concreto passaggio all'azione dei membri del gruppo, sotto forma di attività preparatorie rispetto alla esecuzione di reati fine oppure all'assunzione di un ruolo concreto nell'organigramma criminale (così, da ultimo, Cass., sez. unite, 12 luglio - 20 settembre 2005, Marinino). Ma è agevole rilevare che gli elementi indicati nell'ordinanza (conversazioni intercettate in cui si fa riferimento alla preparazione di attentati, frequentazione stabile di aderenti all'associazione, rapporto protratto nel tempo con il promotore e organizzatore della cellula, concorso nell'attività di procacciamento di documenti falsi per aderenti al Gspc, sua individuazione tra i connazionali come "trerrorista", rocambolesco tentativo di sottrarsi a perquisizione) sono, di per sè e salvo le ulteriori necessarie verifiche, sintomatici proprio della assunzione di un ruolo concreto (quantomeno di supporto) nell'organigramma dell'associazione e del coinvolgimento in attività eversive (pur rimaste nella fase progettuale). Si aggiunga che, ancora una volta, l'efficacia indiziante degli elementi indicati non è oggetto di specifiche contestazioni del ricorrente, se non su punti secondari e sostanzialmente irrilevanti (come la natura delle imputazioni mosse al coindagato B.).
4. Le considerazioni sin qui svolte dimostrano l'infondatezza del ricorso che va, conseguentemente, rigettato con seguito di spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell'istituto penitenziario ai sensi dell'art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
Così deciso in Roma, il 15 giugno 2006.
Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2006
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