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Art. 129 c.p.p. - Obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità


In ogni stato e grado del processo, il giudice, il quale riconosce che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, lo dichiara di ufficio con sentenza.

Quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta.

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Giurisprudenza sull'art. 129 c.p.p.
Cass., massima sent. n. 30867 del 17.06.2011
La sentenza di patteggiamento può essere oggetto di controllo di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione, se dal testo di essa appaia evidente la sussistenza delle cause di non punibilità di cui all'art. 129 c.p.c.

Cass., massima sent. n. 1504 del 12.05.1990
Il proscioglimento per uno dei motivi di merito previsti dall'art. 129 c.p.p. non può essere pronunciato dal G.I.P. (giudice delle indagini preliminari) investito da parte del P.M. della richiesta di giudizio immediato, in quanto l'art. 455 c.p.p. gli attribuisce soltanto il potere-dovere di accogliere detta richiesta e di respingerla con restituzione degli atti al P.M. La possibile applicazione del citato art. 129 c.p.p. è prevista espressamente solo nei procedimenti speciali di cui all'art. 444 c.p.p. applicazione della pena richiesta) e all'art. 459 c.p.p. (procedimento del decreto), in quanto in entrambi i casi il giudice viene messo nelle condizioni di definire il processo, mentre ciò non avviene con la richiesta di giudizio immediato da parte del P.M., trattandosi di una fase del processo, caratterizzata soltanto dalla valutazione dei presupposti formali del giudizio richiesto, in assenza di contraddittorio tra le parti.

Cass., massima sent. n. 356 del 14.01.2000
In caso di "abolitio criminis", poiché tale evento fa venire meno, ancor più che la validità e l'efficacia della norma penale incriminatrice, la sua stessa esistenza nell'ordinamento, ogni giudice che sia formalmente investito della cognizione sulla fattispecie oggetto di abrogazione ha il compito di dichiarare, ex art. 129, comma primo, c.p.p., che il fatto non è previsto dalla legge come reato, in ossequio al precetto di cui all'art. 2, comma secondo, c.p., per il quale nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato. In altri termini, essendo venuto meno l'oggetto sostanziale del rapporto processuale penale, e cioè il nesso tra un fatto penalmente rilevante e l'accusato (imputazione-imputato), tale declaratoria è necessariamente pregiudiziale rispetto ad ogni altro accertamento (quale quello relativo alle cause di inammissibilità dell'impugnazione) che implichi, invece, la formale permanenza di una "res iudicanda"; e ciò non diversamente da quanto è imposto al giudice nell'ipotesi di morte dell'imputato, ove pure - in questo caso per il venir meno della componente soggettiva - il rapporto processuale è risolto.