Svolgimento del processo
1. - I coniugi P. F. e M. A. C. F., in proprio e quali legali rappresentanti del figlio minore L. F., convenivano in giudizio l'Unità sanitaria locale del Comprensorio A.G. e Ledro C 9 ed il dott. A. S..
Gli attori - nella citazione a comparire davanti al Tribunale di Rovereto, notificata l'8 giugno 1992 - chiedevano che il convenuto S. fosse dichiarato responsabile delle lesioni riportate da L. F. e che ambedue i convenuti fossero condannati, in solido tra loro, a risarcire il danno, patrimoniale e morale, subìto direttamente da loro ed il danno morale, alla salute ed alla capacità produttiva subìto dal minore.
Esponevano che il giorno 18 agosto 1987 M. A. C. F. era stata ammessa al reparto di ostetricia del presidio ospedaliero di Riva del Garda per partorire il suo primo figlio. Portata in sala parto alle ore 8 del mattino, iniziava il travaglio che procedeva regolarmente sino alle 10.45, allorché sorgevano le prime complicazioni, perché il feto arrestava la propria progressione di uscita. Alle ore 12 il dott. S., medico responsabile del reparto, che presiedeva all'intervento, decideva di applicare una ventosa e dopo tre tentativi procedeva al taglio cesareo, durante il quale si manifestavano notevoli difficoltà nell'estrazione della testa. Il taglio cesareo veniva praticato alle ore 13.55 e portava all'estrazione di un feto vivo, ma ipotonico e asfittico. Al neonato, trasportato di urgenza alla sezione di patologia natale dell'unità operativa di pediatria dell'ospedale infantile di Trento, veniva riscontrato un grave edema celebrale. Ad un successivo controllo gli veniva accertata un'atrofia frontale con esiti di emorragia cerebrale.
Gli attori proseguivano esponendo che il bambino si era così venuto a trovare in condizioni di permanente e totale invalidità e che le lesioni riportate erano da attribuire alla colpa grave del medico: la negligente sorveglianza dell'andamento del travaglio non gli aveva consentito di avvertire l'arresto della progressione del feto e la situazione di sofferenza fetale, che si veniva determinando a causa del mancato impegno del capo per la rotazione sacrale dell'occipite, sicché si era indotto all'uso della ventosa in una situazione in cui questo sarebbe stato sconsigliabile.
2. - L'Unità sanitaria locale A.G. e Ledro ed A. S. si costituivano in giudizio e chiedevano che la domanda fosse rigettata.
3. - Il Tribunale, con sentenza del 5 dicembre 1994, l'accoglieva e, condannava i convenuti al risarcimento del danno, che liquidava, per vari titoli, nella somma complessiva di un miliardo e 600 milioni di lire con gli interessi legali dal giorno dell'evento lesivo.
Il Tribunale, in particolare, condannava i convenuti a risarcire i danni biologico e morale subiti dal minore L. F., danni che liquidava nella rispettiva misura di 300 ed 80 milioni di lire, con gli interessi legali su tali somme, dalla data del fatto al saldo.
4. - La decisione veniva impugnata, con appello principale, da A. S..
L'appellante sosteneva che nel comportamento da lui tenuto durante il parto non avrebbe potuto essere rinvenuta alcuna colpa e tantomeno una colpa grave.
Svolgeva poi critiche relative all'accertamento ed alla liquidazione di talune voci di danno.
Proponevano appelli incidentali l'Azienda provinciale per i servizi sanitari della Provincia autonoma di Trento e gli attori.
La prima formulava critiche analoghe a quelle svolte dal dott. S., ma vi aggiungeva quella per cui non poteva essere riconosciuto al minore un diritto al risarcimento rispetto a danni costituenti la conseguenza di una condotta esercitatasi sul feto; i secondi chiedevano che nel risarcimento fossero comprese voci di danno escluse dal Tribunale e che per altre fosse attribuito un risarcimento maggiore.
5. - La Corte d'Appello di Trento, con sentenza del 18 ottobre 1996, ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado ed ha condannato A. S. e l'Azienda provinciale per i servizi sanitari a pagare in solido a P. F. ed a M. A. C. F., quali rappresentanti del figlio minore L. la somma di L. 1.268.595.000 con gli interessi legali dal sinistro al saldo.
La Corte d'Appello ha ritenuto:
- che nel comportamento del dott. S. fosse da ravvisare una colpa grave e che, in ogni caso, la responsabilità del medico dipendente del servizio sanitario nazionale è regolata dalle norme che disciplinano la responsabilità contrattuale dei professionisti e non dalle norme dettate dagli artt. 22 e 23 del testo unico sugli impiegati dello Stato del 1957;
- che la persona ha diritto d'essere risarcita per il danno costituito dalle menomazioni che incidono sulla sua integrità fisica e psichica e che costituiscono la conseguenza di fatti colposi altrui verificatisi prima della propria nascita;
- che nessun risarcimento spettasse, in parte per ragioni di ordine processuale in parte per ragioni di ordine sostanziale, agli attori in proprio;
- che al minore spettava invece il risarcimento oltre che dei danni biologico e morale, di quello connesso alla perdita dell'attitudine al lavoro, danni che liquidava rispettivamente in L. 900 milioni, 200 milioni e 168.595.000;
- che tali somme andavano aumentate di interessi legali dalla data del sinistro al saldo, come già aveva stabilito il Tribunale, con decisione che sul punto non era stata impugnata.
6. - A. S. e l'Azienda provinciale per i servizi sanitari della Provincia di Trento hanno proposto ricorso per cassazione.
L'Azienda ha in parte resistito al ricorso S..
P. F. e M. A. C. F. hanno resistito con controricorso ad ambedue i ricorsi.
I ricorrenti hanno depositato ciascuno una memoria.
Motivi della decisione
1. - I due ricorsi debbono essere riuniti perché si tratta di impugnazioni proposte contro la stessa sentenza (art. 355 cod.proc.civ.).
2. - Il ricorso S. contiene quattro motivi.
Il primo denunzia vizi di violazione di norme di diritto e sul procedimento, nonché vizi di difetto di motivazione (art. 360 cod.proc.civ., n. 3, n. 4 e n. 5, in relazione all'art. 2697 cod.civ., artt. 115, 116, 191, 61 e 196 cod.proc.civ.).
Il secondo motivo denunzia un vizio di violazione di norme di diritto (art. 360, n. 3, cod.proc.civ., in relazione all'art. 2236 cod.civ. ed agli artt. 22 e 23 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 e art. 28 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761).
I due motivi investono i punti della decisione in cui la Corte d'Appello da un lato ha affermato la colpa grave del ricorrente, dall'altro ha escluso che la disciplina della responsabilità dei medici dipendenti dalle unità sanitarie locali sia regolata dall'art. 28 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761.
Il terzo motivo denuncia vizi di violazione di norme sul procedimento e di difetto di motivazione (art. 360, n. 3 e n. 5, cod.proc.civ., in relazione agli artt. 116 e 345 cod.proc.civ.).
Esso investe il punto della decisione in cui la Corte d'Appello ha affermato che, in conseguenza delle lesioni riportate durante il parto, il bambino, raggiunta l'età lavorativa, non avrebbe avuto possibilità di un futuro economico impiego delle proprie energie e perciò aveva subìto un danno patrimoniale; investe altresì il criterio di calcolo di tale danno, oltre che di quello del danno biologico.
Il quarto motivo denunzia vizi di violazione di norme di diritto e di difetto di motivazione (art. 360; n. 3 e n. 5, cod.proc.civ., in relazione agli artt. 1223, 1224, 2056 e 1226 cod.civ.).
Esso investe sotto altro profilo il criterio di calcolo del danno biologico e il computo degli interessi legali.
Il ricorso della Azienda provinciale per i servizi sanitari contiene anch'esso quattro motivi.
Il primo denunzia un vizio di violazione di norme di diritto (art. 360, n. 3, cod.proc.civ., in relazione all'art. 1 cod.civ.) e ripropone il tema della possibilità di riconoscere alla persona poi nata un diritto al risarcimento rispetto a danni costituenti la conseguenza di una condotta esercitatasi sul feto.
Il secondo denunzia vizi di difetto di motivazione (art. 360, n. 5, cod.proc.civ.) e riguarda la liquidazione del danno biologico.
Il terzo denunzia vizi di violazione di legge e di difetto di motivazione (art. 360, n. 3 e n. 5, cod.proc.civ., in relazione all'art. 1223 cod.civ.) e riguarda sia il riconoscimento sia la liquidazione del danno patrimoniale.
Il quarto ed ultimo motivo denunzia un vizio di violazione di norme di diritto (art. 360, n. 3, cod.proc.civ., in relazione all'art. 1223 cod.civ.) e svolge l'argomento del computo degli interessi.
3. - Il ricorso dell'Azienda provinciale per i servizi sanitari della Provincia autonoma di Trento è ammissibile.
3.1. - Il processo è iniziato il 2 giugno 1992 in confronto della Unità sanitaria locale del Comprensorio A.G. e Ledro sulla base di una domanda di risarcimento del danno da fatto illecito.
L'Unità sanitaria locale vi si è costituita nella persona dell'amministratore straordinario (nominato in base all'art. 1, comma 7, del D.L. 6 febbraio 1991, n. 35, conv. con modif. in L. 4 aprile 1991, n. 111).
Prima che il giudizio si concludesse in primo grado con la sentenza 21 settembre 1994 del Tribunale di Rovereto, il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, procedendo al riordino della disciplina in materia sanitaria, da un lato istituiva l'unità sanitaria locale, configurandola come azienda ed ente strumentale della regione dotata di personalità giuridica (art. 3, comma 1), dall'altro stabiliva che le regioni avrebbero disciplinato i criteri per la definizione dei rapporti attivi e passivi facenti capo alle preesistenti unità sanitarie locali e unità socio sanitarie locali (art. 3, comma 5, lett. c).
Sopravveniva la L. Prov. Trento 1 aprile 1993, n. 10, a norma della quale, la Provincia stabiliva di provvedere all'esercizio delle funzioni amministrative inerenti al servizio sanitario provinciale, avvalendosi, quale ente strumentale, dell'azienda provinciale per i servizi sanitari (art. 2, comma 1).
Con la stessa legge, era stabilito che la delega all'esercizio delle funzioni in materia sanitaria conferita ai comprensori sarebbe venuta meno una volta che, con provvedimento della Giunta provinciale, fosse stata determinata la data in cui avrebbe avuto luogo il trasferimento all'azienda delle funzioni prima svolte dalle unità sanitarie, data a partire dalla quale le stesse unità sanitarie locali sarebbero risultate soppresse, con contestuale trasferimento all'azienda di tutti i rapporti attivi e passivi già a loro facenti capo (art. 2, comma 2 e (art. 55, comma 1, lett. c.).
Nel giorno antecedente a quella data si sarebbe dovuta chiudere la gestione finanziaria delle unità sanitarie locali soppresse, mentre i residui passivi avrebbero dovuto essere assunti a bilancio dell'azienda in apposite contabilità stralcio distinte per unità sanitaria locale di provenienza, per essere definiti nei due anni successivi ed in mancanza essere trasferiti ai pertinenti capitoli della gestione di competenza dell'azienda (art. 59).
La successiva L. Prov. Trento 20 aprile 1993, n. 13 stabiliva che, sino alla data prevista dall'art. 55, primo comma lett. c) della legge n. 10 del 1993, avrebbero continuato a svolgere le loro funzioni presso ciascuna unità sanitaria locale gli amministratori straordinari confermati ai sensi del D.L. 30 dicembre 1992, n. 510.
La sentenza 21 settembre 1994 veniva pronunciata in confronto della preesistente Unità sanitaria locale, in persona del suo amministratore straordinario.
Dopo la pronuncia della sentenza e prima che la stessa venisse impugnata dal dott. S. con la citazione notificata alla Unità sanitaria locale l'8 marzo 1995, interveniva la L. 23 dicembre 1994, n. 724, che, all'art. 6, comma 1, disponeva nel senso che in nessun caso fosse consentito alle regioni far gravare sulle aziende di nuova istituzione, "né direttamente né indirettamente, i debiti e i crediti facenti capo alle gestioni pregresse delle unità sanitarie locali" e che a tal fine le regioni dovessero disporre "apposite gestioni a stralcio, individuando l'ufficio responsabile delle medesime".
L'Azienda provinciale per i servizi sanitari della Provincia Autonoma di Trento, in persona del proprio direttore generale, si costituiva prima dell'udienza di comparizione del 16 giugno 1995: dichiarava di farlo in base alla delibera 24 maggio 1995, n. 271 dello stesso direttore generale, dalla quale risultava che l'Azienda era stata attivata in data 1 aprile 1995 e che, dalla stessa data, in base alla L. Prov. 1 aprile 1993, n. 10 - prima richiamata, l'Azienda era subentrata nei rapporti giuridici già facenti capo alle unità sanitarie locali.
È in confronto dell'Azienda provinciale per i servizi sanitari della Provincia di Trento, che veniva infine pronunciata la sentenza 18 ottobre 1996 della Corte d'Appello di Trento, contro la quale l'Azienda ha proposto ricorso.
3.2. - Da quanto sin qui esposto risulta che l'appello venne correttamente notificato l'8 marzo 1995 all'Unità sanitaria locale Comprensorio A.G. e Ledro, che era stata in giudizio in primo grado e sarebbe stata soppressa solo il 31 marzo 1995.
Emerge, altresì, che, pendente ormai il processo in appello, ma sopravvenuta, dopo la notificazione della citazione e prima della costituzione in giudizio, la soppressione dell'unità sanitaria locale, come suo successore e per proseguire il processo si è costituita l'Azienda.
La legittimazione dell'Azienda provinciale a proseguire il processo come successore dell'unità sanitaria locale ha costituito il presupposto delle pronunce che in favore e contro la stessa sono state rese dalla Corte d'Appello di Trento, su talune delle quali si è formato il giudicato, in particolare sul rigetto di tutte le domande proposte dai coniugi F. in proprio, anziché come rappresentanti del figlio minore L..
Ciò preclude, anche nei rapporti tra l'Azienda provinciale e le altre parti del processo in cui tale giudicato si è formato, che si possa tornare ad esaminare la questione della successione dell'Azienda provinciale nei debiti della soppressa unità sanitaria locale e della sua legittimazione a proseguire il processo come suo successore.
4. - Il primo dei quattro motivi del ricorso dell'Azienda non è fondato.
4.1. - La Corte - con la sentenza 22 novembre 1993, n. 11503 - ha già affrontato la questione che viene riproposta ed ha affermato che, venuta ad esistenza con la nascita, la persona, se nel corso del parto la sua integrità fisica ha subito menomazioni e perciò il suo normale sviluppo ne risulta pregiudicato, ha diritto di essere risarcita del danno che gliene deriva, se le menomazioni sono state conseguenza del comportamento colposo del medico, cui spettava di sorvegliare e favorire il decorso del parto.
La responsabilità del medico verso il neonato è stata poi alla base di altre successive pronunce della Corte (Cass., 9 settembre 1998, n. 8875; 19 maggio 1999, n. 4852).
La tesi contraria svolta dalla ricorrente è viziata dall'errore logico di volere interporre una cesura, rispetto alla persona venuta in vita, tra il tempo posteriore alla nascita, in cui essa risente la minorazione della propria individualità, ed il tempo precedente alla nascita, in cui sul completamento del suo venire ad esistenza incidono i fatti colposi altrui, quasi che quel tempo e quel processo di formazione le siano estranei.
Presenta altresì l'errore giuridico di voler ragionare in termini di acquisto del diritto in rapporto a fatti idonei a determinarlo, però prodottosi prima della nascita, quando nel caso si tratta, per la persona, una volta nata, di non subire inerme una menomazione che, prodottasi durante il completamento della propria formazione anteriore alla nascita, produce i suoi effetti invalidanti rispetto al dispiegarsi della propria individualità di persona che esiste.
5. - Sono parimenti infondati il primo ed il secondo motivo del ricorso S..
5.1. - La Corte d'Appello, sulla base di quanto attestato nella cartella clinica, ha accertato che, tra il momento in cui venne riscontrato l'arresto della progressione del feto e l'inizio del parto cesareo intercorsero ben più di tre ore; ed ancora, che quasi due ore erano passate tra la prima applicazione della ventosa e l'inizio del cesareo.
Ha ancora considerato che dove la partoriente era stata ricoverata non c'era un reparto autonomamente attrezzato per interventi chirurgici interni.
Le conclusioni tratte dalla considerazione di questi elementi di fatto è stata che il medico, una volta presentatasi la situazione di arresto della progressione, nella prospettiva di dover ricorrere ad un parto operativo se la situazione non si fosse sbloccata con la progressione della testa fetale oltre lo scavo medio, avrebbe dovuto immediatamente predisporre quanto necessario per eseguire il taglio cesareo con la dovuta tempestività. Ed invece esso era stato eseguito con il ritardo già veduto, determinando un'abnorme protrazione della testa del feto nello scavo medio.
Non averlo fatto, ha considerato la Corte d'Appello, connotava il comportamento tenuto dal professionista come gravemente colposo.
5.2. - La prima critica rivolta alla decisione della Corte d'Appello è d'aver disposto un'indagine tecnica e d'averne valutato le conclusioni, mentre l'indagine tecnica non è un mezzo di prova, ma uno strumento per valutare da un punto di vista tecnico quanto è emerso dalle prove date dalle parti. E nessuna prova era stata data per l'attore, giacché ci si era limitati ad allegare che egli era nato leso.
A questa critica si deve rispondere, che, in presenza di elementi che provano l'esistenza di un evento dannoso, c'è per il giudice la necessità di farsi assistere da consulenti tecnici (art. 61, primo comma, cod.proc.civ.), se è attraverso la particolare competenza di questi che è possibile con maggiore certezza ricostruire lo svolgimento dei fatti, stabilire il nesso causale tra evento e fatti che possono averlo determinato, valutare l'adeguatezza od al contrario l'inadeguatezza dei comportamenti umani tenuti nella vicenda dalle persone intervenutevi.
Si deve aggiungere che tra le indagini, che il giudice può commettere al consulente, vi sono quelle che consistono nel rilevare e descrivere i fatti che si tratta di valutare in base a particolari competenze.
Sicché i giudici di merito non hanno violato, ma hanno esattamente applicato l'art. 61 cod.proc.civ., quando hanno disposto di farsi assistere da consulenti tecnici per rilevare le menomazioni presentate dal minore, stabilire se esse trovano causa in fatti avutisi durante le operazioni di parto, ricostruire la successione degli eventi e valutare quale comportamento il medico avrebbe potuto tenere nella situazione data per rispondere in modo adeguato alle evenienze che il parto era venuto presentando.
Che poi il parto vi fosse stato, il bambino fosse nato leso ed al parto aveva presieduto il dott. S. risultava dalla cartella clinica.
5.3. - Altra critica rivolta alla decisione è che i giudici di merito non hanno tenuto in considerazione rilievi mossi alle conclusioni rassegnate dei consulenti di ufficio e non hanno inteso dare corso ad ulteriori indagini tecniche, in particolare su alcuni punti.
Qui si deve osservare, che il giudice di merito può fondare la propria decisione sulle conclusioni raggiunte dal consulente tecnico di ufficio.
Egli deve bensì tenere conto delle critiche che a tali conclusioni siano state mosse, ma la parte che chiede la cassazione della sentenza sostenendo che non si sia tenuto conto delle sue osservazioni deduce che la sentenza è viziata da difetto di motivazione su punto decisivo da lei prospettato e perciò ha l'onere di indicare quali siano le circostanze di fatto secondo lei erroneamente rilevate e valutate dai consulenti, quali i ragionamenti insufficienti ed illogici da essi svolti nel pervenire alle conclusioni rassegnate, quali le diverse o rinnovate indagini inutilmente sollecitate. Ha anche l'onere di dimostrare perché attraverso la valutazione di tali altre circostanze si sarebbe potuti logicamente pervenire a diversa decisione ed in che modo le conclusioni dei consulenti di ufficio siano risultate fuorviate.
Orbene, nel ricorso si osserva che "i C.T.U. non hanno dato contezza alcuna del giudizio di adeguatezza formulato sulle prestazioni assistenziali rianimatorie assertamente intensivistiche degli Ospedali di Riva del Garda e Patologia neonatale di Trento (leggasi C.T.U. a pag. 9) di guisa che tale giudizio è apodittico ed immotivato così come recepito in sentenza, determinando carenza totale su un punto decisivo della controversia, e cioè l'accertamento di causa e concause della patologia di cui L. F. è affetto".
Se non che i giudici di merito hanno dato conto del fatto che il piccolo L. F. non appariva "portatore di un'alterazione genetica rapportabile ad una sindrome ben definita" - secondo quanto risultava da un accertamento fatto compiere dai consulenti di ufficio - e che - secondo il giudizio espresso dagli stessi consulenti - le successive prestazioni praticate presso i due ospedali citati dal ricorrente non potevano valere a scongiurare il consolidamento della gravissima encefalopatia e delle relative alterazioni epilettiche e pareto-spastiche.
Ed allora è chiaro che, da un lato, i giudici hanno dato conto in modo sufficiente del perché ritenevano non provata la preesistenza di malformazioni del feto, dall'altro l'eventuale inadeguatezza delle prestazioni di recupero successive al parto non sarebbe valsa ad interrompere il nesso di causalità tra evento dannoso e comportamento del medico e quindi ad incidere sulla sua responsabilità.
Sostiene ancora il ricorrente che i giudici di merito né hanno indicato quale specifica diversa condotta egli avrebbe dovuto tenere nel caso né avevano le conoscenze per esprimere giudizi circa la gravità della propria colpa.
Ma qui si deve obiettare che i giudici di merito hanno rinvenuto lo specifico comportamento colposo del ricorrente nell'aver troppo a lungo procrastinato la scelta di intervenire col taglio cesareo e che se un comportamento rivela, come i giudici di merito hanno ritenuto, la mancanza della diligenza minima, quella appunto di rendersi avvertito della necessità di superare gli ostacoli del parto attraverso il taglio cesareo predisponendolo tempestivamente, è rispondente a diritto la valutazione che la colpa sia grave.
5.4. - L'accertata gravità della colpa toglie poi rilevanza al problema, se ai medici dipendenti dal servizio sanitario nazionale, si applichino le limitazioni di responsabilità previste dall'art. 28 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761.
6. - Si debbono ora esaminare i motivi dei due ricorsi, che investono il riconoscimento del diritto al risarcimento in relazione alle diverse voci di danno e la loro liquidazione.
7. - La Corte d'Appello, come già il Tribunale, ha riconosciuto dovuto al minore il risarcimento del danno biologico.
Ma, mentre, secondo il Tribunale, L. F. aveva subito una totale compromissione della propria integrità fisica e psichica e con la loro sentenza del 21 settembre 1994 i primi giudici gli avevano liquidato un risarcimento di 300 milioni di lire in base ad un coefficiente di 3 milioni a punto di invalidità, la Corte d'Appello ha ritenuto accertata una compromissione del 90% e però, con la sentenza del 18 ottobre 1996, ha liquidato il danno in base al coefficiente di 10 milioni a punto di invalidità.
7.1. - Il ricorrente S., in una parte del terzo motivo, quella finale, osserva che il coefficiente utilizzato dalla Corte d'Appello "è rapportato dalle Corti di merito all'intera vita futura del danneggiato", mentre nella sentenza si è considerato che l'aspettativa di vita futura di L. F. al momento della nascita era di trenta anni.
Lo stesso argomento è ripreso nel secondo motivo del ricorso dell'Azienda provinciale, dove si osserva che il coefficiente di 10 milioni corrisponde, nelle tabelle in cui è stato elaborato, al punto di invalidità riferito a persona di un anno e con aspettativa di vita che supera anche l'ottantesimo anno di età.
Queste critiche non sono fondate.
Il danno biologico deve essere liquidato dal giudice con valutazione equitativa (art. 1226 cod.civ.), tenendo conto dei tratti che caratterizzano nel caso concreto la menomazione arrecata al diritto della persona alla propria integrità fisica e psichica.
La Corte, in epoca recente, con la sentenza 19 maggio 1999, n. 4852, si è ancora una volta soffermata sul ruolo che possono avere, rispetto all'esercizio del potere del giudice di valutare il danno con criteri equitativi, le tabelle predisposte dal medesimo o da altri uffici giudiziari, per tradurre in moneta il c.d. punto di invalidità: non è dunque il caso di tornare sull'argomento e del resto i ricorrenti non criticano il fatto che la Corte d'Appello di Trento abbia impiegato la tabella elaborata dal Tribunale di Milano, criticando bensì il modo in cui la tabella è stata applicata.
La critica contiene però un errore logico.
Il valore ponderale del punto d'invalidità è calcolato in base all'impiego congiunto di due elementi: la gravità della menomazione, che misura quanto della piena integrità fisica e psichica è andato perduto; l'età della persona nel momento in cui subisce la menomazione, che misura quanto spazio di vita, rispetto alla sua durata media, ha la persona nel momento in cui subisce il danno.
Tanto maggiore è la gravità della menomazione, tanto più giovane è l'età di chi la subisce, tanto più elevato è il valore ponderale del punto di invalidità, il quale racchiude in sé ed esprime la simultanea presenza dei due fattori che concorrono a privare la persona del diritto a vivere come persona sana ed a vivere quanto comunemente vivono gli altri.
Sicché non v'è in sé errore logico nella conclusione cui è pervenuta la Corte d'Appello, di calcolare il danno moltiplicando il valore ponderale del punto di invalidità per una persona nella fascia dei primi anni di vita, con il numero dei punti di invalidità.
È ben chiaro e risponde alla logica comune, che la massima menomazione che possa arrecarsi all'integrità fisica e psichica di una persona, che tuttavia vivrà ed a lungo, sta nel porla nella condizione di dover vivere una vita presso che totalmente svuotata dei valori e possibilità che essa presenta ed offre a tutti gli altri.
Ciò non significa dire, come affermazione di principio, che il giudice non possa tenere conto o sbaglierebbe se tenesse conto del fatto che alla persona, per la gravità della menomazione, non resti che un veramente breve spazio di vita ulteriore, eventualmente consumatosi nel momento in cui il danno è liquidato.
Rientra nella logica della valutazione equitativa che il giudice possa e debba tenere conto di ogni rilevante tratto del caso concreto.
Ma sbagliano i ricorrenti quando assumono che, nel caso concreto, la liquidazione del danno avrebbe dovuto essere fatta in altro modo e che sia viziata dal punto di vista logico per non essere stata fatta in altro modo.
Il quale avrebbe poi dovuto consistere nel considerare il bambino alla stregua di una persona che avesse già consumato parte della durata della vita media e si trovasse nella condizione di età della persona cui resti, di tale durata di vita media, lo stesso spazio di vita che resterebbe ad un bambini nato con le menomazioni del piccolo L. F..
È sufficientemente chiaro che al piccolo L. F., se avrà la ventura di vivere solo trent'anni sarà stato tolto, non dalla natura o dal destino, ma dal fatto colposo di altri, ben più di quanto può essere tolto a persona che abbia vissuto cinquanta degli ottanta anni di vita che costituiscono oggi la durata di vita sulla cui base è stata formata la tabella.
Non aver la Corte d'Appello ritenuto di dover attribuire rilevo al dato su cui si sono soffermati i ricorrenti ha d'altro canto sul piano logico ulteriori giustificazioni: la non breve attesa di vita futura e la possibilità che la prognosi risulti smentita dai fatti o dal progresso della scienza.
Si ripropone poi sotto altro aspetto il medesimo errore logico, quando, come fa l'Azienda, si sostiene che nel valutare il danno derivante dalla menomazione avrebbe dovuto tenersi conto, come fattore diminuente, del fatto che al bambino è stata tolta, almeno in parte, anche la consapevolezza del proprio stato.
8. - La Corte d'Appello, riformando la sentenza del Tribunale, ha per prima riconosciuto a Leandro F. il diritto ad ottenere il risarcimento per la perdita dei guadagni che avrebbe potuto ritrarre dall'impiego delle proprie energie di lavoro, se la menomazione subita non glielo avesse impedito, come i giudici hanno ritenuto sarà in futuro.
Il risarcimento è stato liquidato in L. 168.595.000.
A questo capo della sentenza, nel terzo motivo del ricorso S. sono rivolte due critiche.
La prima è che la domanda per ottenere questo risarcimento è stata proposta solo in appello e perciò avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile.
La seconda è che il danno è stato liquidato senza tenere conto che un impiego di energie lavorative avrebbe potuto aversi solo per un arco di dieci anni, dai venti ai trenta.
Nel terzo motivo del ricorso dell'Azienda si sostiene invece che il danno risentito da Leandro F. è solo quello biologico e peraltro non si è tenuto conto, in modo contraddittorio, di due elementi: il primo che il bambino frequentava ora una scuola, sicché era prevedibile avrebbe potuto poi svolgere una qualche attività di lavoro; il secondo costituito della sua limitata aspettativa di vita.
8.1. - Le critiche rivolte al riconoscimento del diritto sono ambedue infondate.
Già con la citazione gli attori avevano chiesto il risarcimento del danno alla salute ed alla capacità produttiva del minore.
Privare una persona in modo presso che totale della possibilità di svolgere un lavoro e di ritrarre da questo una guadagno è pregiudizio che incide sul suo patrimonio, non sulla possibilità di dispiegare la propria individualità nella sfera dei rapporti sociali ed affettivi.
Lo sono anche quelle rivolte alla liquidazione del danno, perché, una volta assunto, come la Corte d'Appello ha fatto, che dall'impiego delle proprie energie lavorative L. F. avrebbe potuto in futuro ritrarre, al momento del suo inserimento nel mondo del lavoro, all'età di 20 anni, un guadagno iniziale di 18 milioni l'anno, lo sviluppo del calcolo andava compiuto, come è stato fatto tenendo conto della durata della vita media, non della residua aspettativa di vita del bambino, ridotta rispetto alla durata di vita media per una minorazione non congenita, ma dovuta alla colpa altrui.
La circostanza che il bambino, pur minorato, sia stato ammesso a frequentare la scuola non è in sé indice della possibilità che raggiunta l'età del lavoro, egli sarà in grado di svolgerne uno: si tratta insomma di un fatto non decisivo e il non averne la Corte d'Appello tenuto conto non si traduce in vizio della motivazione.
9. - Il quarto motivo dei due ricorsi, come si è detto, è rivolto a censurare la liquidazione delle tre voci di danno, biologico, morale e patrimoniale conseguente alla perdita dell'attitudine al lavoro, sotto il profilo che, pur essendo stato fatto in moneta attuale, sulle somme capitali sono stati poi accordati interessi legali dalla data del fatto.
Obiettano i resistenti, che così aveva fatto il Tribunale e che ai secondi giudici era precluso fare altrimenti perché sul punto gli attuali ricorrenti non avevano proposto appello; richiamano altresì quanto ritenuto, in un caso apparentemente analogo, nella sentenza 19 maggio 1999, n. 4852 di questa sezione, cui si è già fatto richiamo, ed in altre precedenti decisioni della Corte.
9.1. - È necessario porre a raffronto la pronuncia resa sul punto dalla Corte d'Appello e le critiche che le sono state rivolte.
I giudici di secondo grado, come si già accennato, accogliendo l'impugnazione proposta dai genitori del bambino, hanno liquidato i danni biologico e morale, a distanza di due anni dalla sentenza del Tribunale, in 900 anziché in 300 milioni e, rispettivamente, in 200 anziché in 80 milioni; hanno anche riconosciuto per la prima volta il danno da perdita dell'attitudine al lavoro, liquidandolo in L. 168.595.000.
Tutte le somme sono state liquidate in moneta attuale, ovverosia in base al valore della moneta alla data della decisione.
Pervenuta a questo risultato, la Corte d'Appello ha detto: - "Sul complessivo ammontare di L. 1.268.595.000 decorreranno poi gli interessi legali dalla data del sinistro al saldo, come statuito nell'impugnata sentenza e non reso oggetto di contestazione".
La Corte d'Appello, dunque, ha ritenuto che, mentre l'impugnazione del danneggiato le imponeva di rinnovare la valutazione del danno originario e la sua traduzione in moneta del tempo della liquidazione, la mancanza di una impugnazione dei danneggianti estesa anche a questo ulteriore punto, le impediva di poter tornare a decidere la questione se a quella componente del risarcimento dovessero aggiungersi interessi e come andassero calcolati, non restandole se non limitarsi ad applicare quanto già aveva deciso il Tribunale.
Ciò significa che la Corte d'Appello, per questa parte, ha ritenuto essersi formata una preclusione al diretto esame della questione da parte sua.
Si tratta allora di vedere se nei ricorsi è stata colta l'essenza di questa ragione del decidere e se le è stata rivolta una critica pertinente.
9.3. - Il quarto motivo del ricorso dell'Azienda denunzia un vizio di violazione e falsa applicazione di norma di diritto, in particolare dell'art. 1223 cod.civ. e si sostanzia nel richiamare il principio di diritto, che in tema di risarcimento del danno da fatto illecito e di modo di calcolo degli interessi è stato formulato nella sentenza 17 febbraio 1995, n. 1712 delle sezioni unite di questa Corte.
È però evidente che questo motivo non può essere esaminato nel merito, perché, come si è visto, esso presuppone che i giudici di merito abbiano sbagliato nel giudicare, ovverosia abbiano sbagliato nell'applicare una norma di diritto sostanziale, quando invece, se un errore hanno commesso, si tratterebbe di un errore nel procedere, ovverosia, perché hanno ritenuto esistente una preclusione al diretto esercizio dei propri poteri di giudicare e di farlo secondo diritto.
9.4. - Il quarto motivo del ricorso S. denuncia nella rubrica la violazione di norme di diritto (gli artt. 1223, 1224, 1226 e 2056 cod.civ.) e difetti di motivazione.
9.4.1. - La prima considerazione è che quando il danno è liquidato con valutazione equitativa e la liquidazione è fatta in moneta attuale, questa liquidazione comprende ogni componente del danno, sicché non vi possono essere aggiunti interessi compensativi.
Si tratta di una critica che, a differenza di quella proposta dall'altro ricorrente, può essere esaminata nel merito.
Infatti, secondo questo assunto, se in appello il danno è considerato superiore a quello liquidato in primo grado e se il giudice ritiene di compiere una liquidazione equitativa in moneta attuale, questa comprenderebbe ogni danno e dunque rispetto a tale meccanismo di liquidazione non potrebbe operare per il giudice di appello il vincolo ad attribuire interessi ed a calcolarli nel modo seguito dal giudice di primo grado, perché altrimenti la stessa componente del danno sarebbe liquidata due volte.
Se non che, così come prospettata, la critica non è fondata.
La liquidazione del danno, compiuta con criterio equitativo ed in moneta attuale può essere comprensiva anche della componente altrimenti liquidata mediante l'attribuzione di interessi, ma ciò non è un portato necessario di tale meccanismo di liquidazione.
Il giudice può liquidare in modo equitativo ed in moneta attuale anche solo la componente del danno corrispondente al valore del bene perduto.
In questo caso, gli resta da liquidare la componente del danno rappresentata dal mancato godimento del capitale sino al momento in cui il risarcimento sarà stato pagato, e tale liquidazione sarà fatta attribuendo interessi nella misura ritenuta congrua.
Nel caso, ciò è avvenuto in primo grado e lo stesso meccanismo è stato seguito dal giudice di appello.
Sicché la sua decisione non presenta il vizio voluto denunciare con la critica qui esaminata.
9.4.2. - Il ricorrente, nell'intento di raggiungere lo stesso risultato sia pure con riguardo al solo danno biologico, formula una seconda critica, che si riassume in questo assunto: una liquidazione equitativa del danno fatta applicando una tabella che esprime il valore del punto di invalidità alla data della sentenza ingloba ogni possibile componente del danno, proprio perché lo liquida al momento attuale.
Anche questa affermazione non può essere condivisa.
Le tabelle esprimono i risultati di una rilevazione statistica compiuta sulle liquidazioni dei danni contenute nelle sentenze pronunciate da un dato ufficio giudiziario nel periodo preso in considerazione.
La rilevazione sarebbe priva di ogni significato se dalle liquidazioni non fosse espunta la componente del danno, variabile da caso a caso, perché conseguenza della durata del processo, rappresentata dal non aver potuto il danneggiato godere dell'equivalente del bene perduto nel tempo richiesto dalla liquidazione del danno.
Il valore del punto di invalidità esprime invece quanto, per il solo danno rappresentato dalla menomazione dell'integrità della persona, i giudici hanno attribuito liquidando tale danno al momento in cui le sentenze sono state pronunciate, momento nel quale, perché la liquidazione del danno è fatta alla data della sentenza, viene riassorbita la differenza data dal differente tempo in cui il danno è stato nei diversi casi subìto.
9.4.3. - Terza ed ultima critica contenuta nel motivo è quella che è stata già commentata esaminando il ricorso dell'Azienda.
Si deve dunque ripetere che si tratta di una critica che non può essere esaminata nel merito.
9.5.5. - Concludendo, anche il quarto motivo del ricorso S. non è fondato.
10. - I ricorsi sono rigettati. Le spese di questo grado del giudizio possono essere compensate tra le parti.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta entrambi e compensa le spese del giudizio.
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