Cassazione civile sez. I, 27/06/2000, n.8718
Fatto
Svolgimento del processo
Il Fallimento della B. Confezioni s.r.l. chiedeva ed otteneva dal giudice di pace di Brescia decreto ingiuntivo datato 6.3.1996 per il pagamento, da parte di C. Francesco, della somma di L 1.527.960, quale corrispettivo a saldo delle forniture eseguite in suo favore nel 1992, come da fattura e relativa bolla di accompagnamento.
Proponeva opposizione il C. il quale sosteneva che, in adempimento della menzionata fattura in cui era previsto che il pagamento avrebbe dovuto essere effettuato mediante "rimessa tramite rappresentante" indicato nella persona dell'agente R. Ciro, aveva consegnato in data 30.3.1993 un assegno dell'indicato importo tratto sul Banco Popolare di Sassari ma privo di data e dell'indicazione del fornitore, assegno che era stato poi intestato al figlio R. Giovanni e datato dallo stesso il 26.4.1993 allorché era stato negoziato presso detto Banco. Osservava altresì che al rilascio del titolo gli era stata consegnata dichiarazione liberatoria a firma di R. Ciro il quale lo aveva assicurato che il curatore fallimentare era a conoscenza di tali fatti.
Chiedeva quindi la revoca del decreto ingiuntivo ed il rigetto della domanda proposta dal Fallimento nonché, in via subordinata, previa chiamata in giudizio di R. Ciro, che quest'ultimo venisse condannato a tenerlo indenne da ogni onere che avrebbe potuto derivargli per il titolo dedotto in giudizio dal Fallimento.
Si costituiva il Fallimento che chiedeva il rigetto dell'opposizione, previa richiesta di concessione della provvisoria esecuzione che il giudice di pace concedeva, autorizzando altresì la chiamata in causa di R. Ciro.
Questi si costituiva, dichiarando di aver ricevuto l'assegno dal C. e di aver ridotto del relativo importo il proprio maggior credito fatto valere con la domanda di ammissione al passivo del fallimento.
Chiedeva quindi l'estromissione del C. e, tenuto conto dell'intervenuta parziale compensazione del credito, l'estinzione del giudizio per intervenuta cessazione della materia del contendere.
Con sentenza del 14-17.3.1998 il giudice di pace di Brescia revocava il decreto ingiuntivo, ordinando la restituzione al C. di tutte le somme dallo stesso versate in virtù della concessa provvisoria esecuzione e condannando il Fallimento al pagamento delle spese processuali a favore sia del C. che del terzo R. Ciro.
Dopo aver precisato che trattasi di giudizio di equità, in considerazione del valore della causa, riteneva provata il giudice di pace l'insussistenza della pretesa creditoria, essendo risultato che il C. provvide, mediante assegno, al pagamento dell'importo richiesto a mani di R. Ciro, come risultava dalla quietanza del 30.3.1993 e che a nulla rilevava che il citato assegno fosse stato formalmente intestato al figlio R. Gianni in quanto questi era legittimato comunque a gestire gli incassi del padre, come risultava dall'indicazione del destinatario di un fax della B. Confezioni s.r.l..
Osservava, fra l'altro, che elementi di valutazione erano desumibili dal fatto che il credito per provvigioni insinuato dal R. Ciro era risultato ridotto dal Fallimento per gli affari non andati a buon fine e che fra questi non figurava alcun credito insoluto nei confronti del C..
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il Fallimento B. Confezioni s.r.l., deducendo quattro motivi di censura.
Le controparti non hanno svolto alcuna attività difensiva.
Diritto
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso il Fallimento della B. Confezioni s.r.l. denuncia violazione e falsa applicazione delle norme riguardanti la chiamata di terzo in giudizio nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione al riguardo. Sostiene che erroneamente il giudice di pace ha autorizzato la chiamata in giudizio di R. Ciro, senza considerare che in base all'art. 269 comma 1 C.P.C. la possibilità per l'attore - quale deve essere considerato processualmente l'opponente a decreto ingiuntivo - di chiamare in giudizio un terzo si esaurisce con l'atto introduttivo, spettando solo al convenuto la facoltà di richiedere al giudice con la comparsa di risposta l'autorizzazione alla chiamata in causa del terzo e potendo l'attore assumere analoga iniziativa solo se l'esigenza sorga a seguito delle difese del convenuto nella comparsa di risposta e purché la chiamata venga disposta nella stessa prima udienza. Deduce che tale circostanza non si era verificata nel caso in esame in quanto l'attore aveva già richiesto irritualmente con l'atto di opposizione l'autorizzazione alla chiamata in causa (invece di provvedervi direttamente), con la conseguenza che l'interesse a detta chiamata non poteva considerarsi sorto a seguito della comparsa di risposta del convenuto e che il giudice era incorso nel duplice errore di autorizzare la chiamata del terzo fuori dalle ipotesi tassative previste ed oltre i termini prescritti. Sostiene ancora che in ogni caso, non già nei confronti di R. Ciro, ma del figlio Gianni, prenditore e beneficiario dell'assegno consegnato dal C., avrebbe potuto eventualmente ipotizzarsi una legittimazione passiva.
La dedotta censura, riguardante un vizio di ordine processuale, è certamente ammissibile in questa sede di legittimità, rientrando fra i motivi per i quali è consentito il ricorso per cassazione avverso le sentenze del giudice di pace decise secondo equità in considerazione del valore della causa non eccedente i duemilioni di lire.
Essa o però infondata.
La tesi del ricorrente basa sul presupposto che la controparte, proponendo opposizione al decreto ingiuntivo, abbia assunto la qualità di attore.
Al riguardo va richiamato però il principio, ormai consolidato, secondo cui, a seguito dell'opposizione, non si verifica alcuna inversione nella posizione sostanziale delle parti nel giudizio contenzioso, mantenendo ciascuna la propria posizione naturale e cioè il creditore quella di attore ed il debitore quella di convenuto, posizione che esplica i suoi effetti non solo nell'ambito dell'onere della prova ma anche in ordine ai poteri ed alle preclusioni di ordine processuale rispettivamente previsti per ciascuna delle due parti (per tutte Cass. 2124-94).
Ma d'altra parte, anche applicando tale principio, non è possibile pervenire ad alcuna soluzione in base alla previsione letterale dell'art. 269 C.P.C. il quale, relativamente al convenuto che intenda chiamare un terzo in giudizio, prevede la richiesta da parte sua al giudice istruttore dello spostamento dell'udienza che nel caso di opposizione non risulta però ancora fissata al momento della sua proposizione.
La verità è che l'art. 269 C.P.C., che disciplina le modalità della chiamata del terzo in causa, non si concilia con il procedimento instaurato tramite l'opposizione al decreto ingiuntivo, dovendo in ogni caso l'opponente citare unicamente il soggetto che ha ottenuto detto decreto in quanto originariamente le parti non possono essere che colui che ha proposto la domanda di ingiunzione e colui contro il quale la domanda è diretta.
Sotto tale profilo pertanto le conclusioni cui è pervenuto il ricorrente non potrebbero essere condivise anche se si attribuisse, come sostiene, la posizione di attore all'opponente.
Tutto ciò non toglie che l'opponente possa avere interesse a chiamare un terzo estraneo al giudizio monitorio (Cass. 1188-95).
In tal caso non gli rimane che richiedere l'autorizzazione al giudice ed al riguardo il riferimento normativo, sia pure in via analogica, è lo stesso art. 269 comma 2 C.P.C. che disciplina l'ipotesi in cui l'interesse dell'attore sorga a seguito della comparsa di risposta del convenuto e che va coordinato con il particolare procedimento conseguente all'opposizione.
In definitiva l'opponente a decreto ingiuntivo, non potendo chiedere, nella sua qualità di convenuto sostanziale, lo spostamento dell'udienza (comma 2) in quanto non ancora fissata e non potendo soprattutto notificare l'opposizione a soggetto diverso da chi ha ottenuto il decreto ingiuntivo, non può che richiedere al giudice, con lo stesso atto di opposizione, l'autorizzazione a chiamare in giudizio il terzo al quale ritiene comune la causa sulla base dell'esposizione dei fatti e delle considerazioni giuridiche contenute nel ricorso per decreto ingiuntivo.
Nel caso in esame l'opponente ha assolto a tale onere, chiedendo con l'atto di opposizione l'autorizzazione a chiamare in causa il terzo e reiterando, sia alla prima che alla seconda udienza, la richiesta che veniva poi accolta dal giudice.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 2697, 2704 e 2722 C.C. in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 C.P.C..
Sostiene che erroneamente il giudice di pace ha fondato il proprio convincimento sulle dichiarazioni rese dal terzo R. Ciro, oltre che in giudizio, in scritti privi di data certa ai sensi dell'art. 2704 C.C., prodotti privi di data certa ai sensi dell'art. 2704 C.C., prodotti dal C. e dal Fallimento. Deduce altresì che altrettanto erroneamente il giudice di pace si è basato sul fax del 12.3.1993, pur essendo stata tempestivamente disconosciuta la sottoscrizione.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia insufficiente e contraddittoria motivazione laddove il giudice di pace ha ritenuto che la riduzione, in sede di verifica del passivo, dei crediti da provvigioni richiesti da R. Ciro fosse stata operata a seguito della considerazione del buon fine del pagamento della somma in questione. Sostiene che, come risulta dal provvedimento del giudice delegato, questi aveva invece ridotto il credito del R. perché non aveva restituito al fallimento alcuni campionari che aveva trattenuto presso di sè.
Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 91 C.P.C. nonché insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 C.P.C.. Lamenta che il giudice di pace abbia condannato il Fallimento alle spese del giudizio del terzo senza che la curatela avesse accettato il contraddittorio per essersi opposta alla chiamata del terzo e senza che tale chiamata si fosse resa strettamente necessaria. Sostiene altresì che il giudice di pace, nel liquidare tali spese, ha omesso di precisare a quale criterio giuridico egli si sia ispirato.
Le dedotte censure sono tutte inammissibili.
È principio ormai consolidato che le sentenze del giudice di pace decise secondo equità ai sensi dell'art. 113 comma 2 C.P.C., oltre che per vizi di natura processuale come sopra evidenziato in relazione al primo motivo, possono essere impugnate con ricorso per cassazione solo per violazioni di norme costituzionali e di diritto comunitario nonché dei principi generali dell'ordinamento, restando escluse le altre violazioni di legge anche se configurino principi regolatori della materia, avendo la predetta legge eliminato anche tale profilo, mentre, per quanto riguarda il vizio di motivazione, esso è censurabile solo se è configurabile la violazione del n. 4 dell'art. 360 C.P.C. e non già del successivo n. 5, vale a dire se la motivazione è meramente apparente o radicalmente contraddittoria in guisa tale da poterla ritenere inesistente.
Nulla di tutto ciò è stato dedotto con gli esposti motivi di ricorso ove risultano denunciati violazioni di legge sostanziale (secondo e quarto motivo) e difetto di motivazione (terzo ed in parte anche il secondo motivo) sotto il profilo, in questa seconda ipotesi, della semplice contraddittorietà ed insufficienza, vale a dire in relazione all'art. 360 n. 5 C.P.C. Quanto poi alla pretesa violazione dell'art. 91 C.P.C., palese ne è l'infondatezza in quanto, a parte il discrezionale di cui è munito il giudice in materia, è stata fatta applicazione del principio della soccombenza previsto da detta norma.
Nulla deve essere disposto in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità, non essendosi la controparte costituita.
PQM
p.q.m.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso.
Roma, 21.2.2000
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