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Art. 153 c.p.c. - Improrogabilità dei termini perentori



I termini perentori non possono essere abbreviati o prorogati, nemmeno sull'accordo delle parti.

La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell’articolo 294, secondo e terzo comma.

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Giurisprudenza sull'art. 153 c.p.c.

Cass., massima sent. n. 2756 del 26-02-2001
La disciplina di cui agli artt. 152, 153 e 331 cod. proc. civ., che attribuisce natura perentoria al termine concesso nel grado o nella fase dell'impugnazione per l'integrazione del contraddittorio in cause inscindibili (o tra loro dipendenti), non consente che esso possa essere prorogato o rinnovato, qualunque sia la causa, anche per forza maggiore, che abbia impedito la tempestiva notificazione dell'ordinanza di integrazione, poiché si tratta di una disciplina giustificata da esigenze di economia processuale, che non viola il diritto di difesa, essendo invece la normativa in materia, pur con la indicata limitazione, finalizzata ad attribuire alle parti del processo un rimedio alle conseguenze negative della mancata proposizione dell'impugnazione nei confronti di tutti i soggetti che dovevano partecipare al giudizio in quel grado o fase a causa del vincolo del litisconsorzio.

Cass., massima sent. n. 8952 del 05-07-2000
In tema di litisconsorzio necessario, l'inottemperanza dell'ordine di integrazione del contraddittorio nel termine perentorio concretamente fissato è sanzionata dall'art. 331 cod. proc. civ. cpv., con l'inammissibilità dell'impugnazione. L'improrogabilità del termine perentorio (art. 153 cod. proc. civ.) fissato dal giudice non esclude, nel caso di incompleta notificazione dell'atto integrativo del contraddittorio (nella specie, a due dei tre coeredi delle parti necessarie pretermesse nel giudizio di legittimità), che possa riconoscersi rilevanza ad una situazione obiettiva che abbia impedito alla parte l'osservanza di quel termine. L'inammissibilità dell'impugnazione, prevista dal primo capoverso dell'art. 331 cod. proc. civ., è diretta a sanzionare infatti comportamenti volontari e colpevoli, imputabili alla parte che sia stata incurante e negligente. Ne discende che non può tradursi in un pregiudizio della parte, che non sia stata in grado di osservare quel termine fissato dal giudice dell'impugnazione, un fatto ad essa non imputabile.

Cass., massima sent. n. 10094 del 15.10.1997
L'art. 184-bis c.p.c., nella sua attuale formulazione, consente, alla parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile, di chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini. E stabilisce che il giudice provvede a norma dell'art. 294 cod. proc. civ., secondo e terzo comma. Come appare -peraltro - evidente dalla sua stessa collocazione (libro secondo, titolo I, capo II, sezione II della trattazione della causa), la norma riguarda le sole ipotesi in cui le parti costituite siano decadute dal potere di compiere determinate attività difensive nell'ambito della causa in trattazione. Essa, quindi, pur rendendo di applicazione generale l'istituto della rimessione in termini (operante, quindi, dopo la soppressione del riferimento alle decadenze previste negli articoli 183 e 184 contenuto nel testo originario, anche per le decadenze stabilite, nei confronti del convenuto, dagli artt. 167, secondo comma, e 171, secondo comma), non è invocabile per le situazioni esterne allo svolgimento del giudizio, per le quali vige, tuttora, la regola della improrogabilità dei termini perentori (art. 153 c.p.c.), che impedisce di utilizzare l'istituto stesso anche per le decadenze relative al compimento del termine perentorio per instaurare il giudizio.