Svolgimento del processo
La controversia ha per oggetto l'impugnazione da parte di K. D.L.G.T., della deliberazione di nomina dei nuovi amministratori della società A. adottata dall'assemblea dei soci del 2 giugno 1993. L'attore ha chiesto al Tribunale di Roma di dichiarare la nullità della citata delibera, e di quelle successive del nuovo consiglio di amministrazione, nonchè la dichiarazione di invalidità della sua revoca dalla carica di amministratore della A.., anche per difetto di giusta causa, con conseguente reintegra nella carica e condanna della società al risarcimento dei danni. Ha dedotto che, in base alle disposizioni del D.L. n. 216 del 1993, (richiamato nell'ordine del giorno), i componenti scaduti del consiglio di amministrazione dovevano essere nominati dal presidente e non dall'assemblea.
La società A., costituendosi in giudizio, ha contestato l'applicabilità del decreto legge invocato perchè divenuto inefficace per mancata conversione in legge alla data dell'assemblea del 2 giugno 1993. Ha contestato altresì la pretesa reintegra nella carica di amministratore, per difetto di giusta causa della delibera di revoca, perchè inammissibile ex art. 2383 c.c..
Il Tribunale di Roma ha respinto le domande dell'attore il quale ha proposto gravame respinto dalla Corte di appello di Roma.
Ricorre per cassazione K.D.L.G.T. articolato su dieci motivi di impugnazione.
Si difende con controricorso la società Le A..
Entrambe le parti depositano memorie difensive.
La controversia ha per oggetto l'impugnazione da parte di K. D.L.G.T., della deliberazione di nomina dei nuovi amministratori della società A. adottata dall'assemblea dei soci del 2 giugno 1993. L'attore ha chiesto al Tribunale di Roma di dichiarare la nullità della citata delibera, e di quelle successive del nuovo consiglio di amministrazione, nonchè la dichiarazione di invalidità della sua revoca dalla carica di amministratore della A.., anche per difetto di giusta causa, con conseguente reintegra nella carica e condanna della società al risarcimento dei danni. Ha dedotto che, in base alle disposizioni del D.L. n. 216 del 1993, (richiamato nell'ordine del giorno), i componenti scaduti del consiglio di amministrazione dovevano essere nominati dal presidente e non dall'assemblea.
La società A., costituendosi in giudizio, ha contestato l'applicabilità del decreto legge invocato perchè divenuto inefficace per mancata conversione in legge alla data dell'assemblea del 2 giugno 1993. Ha contestato altresì la pretesa reintegra nella carica di amministratore, per difetto di giusta causa della delibera di revoca, perchè inammissibile ex art. 2383 c.c..
Il Tribunale di Roma ha respinto le domande dell'attore il quale ha proposto gravame respinto dalla Corte di appello di Roma.
Ricorre per cassazione K.D.L.G.T. articolato su dieci motivi di impugnazione.
Si difende con controricorso la società Le A..
Entrambe le parti depositano memorie difensive.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., per omesso esame e pronuncia in merito alla domanda volta a contestare l'inesistenza o la non imputabilità dei fatti genericamente addebitabili con la delibera societaria di revoca del Presidente del Consiglio di amministrazione.
Il motivo appare infondato in quanto la motivazione della sentenza impugnata è centrata proprio sul punto dell'esistenza e dell'imputabilità dei fatti indicati come giusta causa per la revoca dalla carica di amministratore.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione consistente nel non avere valutato che l'assunzione della carica di amministratore non attribuisce automaticamente la responsabilità per atti e fatti commessi antecedentemente da altri soggetti che hanno amministrato la società.
Il motivo è infondato in quanto la Corte di appello non ha affermato la responsabilità del Presidente del Consiglio di amministrazione per fatti precedenti al suo mandato ma ha focalizzato la sua valutazione sull'osservanza del dovere di vigilanza da esercitare nel corso del mandato. La Corte di appello ha rilevato in particolare:
"il Tribunale ha specificamente esaminato i singoli addebiti e contestazioni contenuti nella dettagliata relazione dell'ISVAP datata 18 maggio 1993, rilevando che la responsabilità per il grave disordine gestionale e le reiterate violazioni di legge, attribuibili agli amministratori, e quindi anche al Presidente, non poteva essere esclusa in considerazione delle circostanze che tali irregolarità preesistessero alla sua nomina e fossero attribuibili (in tutto o in parte) al direttore generale, ed affermando quindi la responsabilità del K.D.L.G. sotto i profili della negligenza e dell'omessa vigilanza. Infatti, anche se al Presidente non fossero stati imputabili specifici atti commissivi, la violazione dell'obbligo di vigilanza sulla gestione sociale sarebbe stata sufficiente ad incidere sul rapporto di fiducia che deve intercorrere tra amministratori e società e, quindi, ad integrare la giusta causa per la revoca". Tale conclusione è poi avvalorata dalla sentenza del Tribunale di Roma n. 1109/2001, intervenuta nel corso del presente giudizio, che ha riconosciuto gli amministratori di A., compreso K.D.L.G., solidalmente responsabili ex art. 2392 c.c., essendo stata verificata l'esattezza dei rilievi mossi nella relazione ispettiva". Nel controricorso A. riporta un passaggio della motivazione della sentenza citata (la n. 1109/2001) in cui si afferma che il Consiglio di amministrazione di A., anche in considerazione della particolare qualificazione rivestita dai propri componenti, era in grado di svolgere un'incisiva e costante attività di gestione degli affari sociali ed era, quindi, in grado di rilevare il compimento, da parte del Direttore generale, di atti di cattiva gestione. Sempre nella motivazione della citata sentenza si da atto che i puntuali accertamenti eseguiti dal C.T.U. sulla documentazione societaria hanno consentito di verificare la sostanziale esattezza dei fatti evidenzianti la cattiva gestione della società descritti dagli ispettori che, per conto dell'ISVAP, svolsero attività di ispezione presso A. dal 25 gennaio al 5 aprile 1993. Nè - aggiunge la motivazione della sentenza citata - "basta affermare che tali fatti siano riconducibili all'operato del Direttore generale (del cui rapporto di lavoro il Consiglio di amministrazione provocò la risoluzione e nei cui confronti lo stesso organo propose azione di responsabilità e i cui comportamenti vennero denunciati al Pubblico Ministero dal Presidente del Consiglio di amministrazione K.D.L.G.: il tutto però solo alla fine dell'anno 1992 e nei primi mesi dell'anno successivo) posto che gli stessi fatti sono anche da ricondurre ad un'omissione da parte degli amministratori, di una doverosa attività di concreta vigilanza in ordine all'andamento dell'azienda da essi gestita".
Con il terzo motivo di ricorso si deduce omessa pronuncia o vizio di motivazione per non aver notato che le censure raggruppate nel terzo motivo di appello erano plurime e non riconducibili alla contraddittorietà (e non corrispondenza) tra statuizione del giudice di primo grado e domanda-difesa della controparte e per la estrema sinteticità e genericità della motivazione sul terzo motivo di appello.
Il motivo di ricorso è rubricato e sintetizzato in modo generico e poco comprensibile. In ogni caso si deve rilevare come la Corte di appello abbia affermato, con motivazione del tutto logica ed esauriente e quindi non censurabile in questa fase del giudizio, sul punto della comprensibilità della convocazione assembleare e della motivazione della revoca rilevando che essa era stata deliberata con esplicito riferimento alla relazione ISVAP, ben conosciuta dal Presidente K.D.L.G., che ne era il destinatario, e dalla quale emergevano omissioni e fatti lesivi nella condotta degli amministratori. Pertanto deve ritenersi contestata chiaramente nella motivazione della sentenza impugnata la censura dell'appellante secondo cui la sentenza di primo grado aveva ritenuto sussistere una colpa, in vigilando mentre l'assemblea aveva contestato al presidente solo una responsabilità in agendo. Quanto alla pretesa omissione di motivazione circa la assoluta genericità delle contestazioni che non avrebbero consentito all'odierno ricorrente di difendersi non ci si può che riportare alla conoscenza, da parte di K.D.L. G., del rapporto ISVAP da cui emergeva una situazione di diffusa irregolarità della gestione sociale di cui egli era chiamato a rispondere nella qualità di Presidente del Consiglio di amministrazione in quanto non aveva compiuto, o aveva compiuto in ritardo, gli atti di vigilanza e di intervento necessari per riportare la situazione alla normalità.
Con il quarto motivo di ricorso si deduce l'omessa pronuncia in ordine al rigetto del quarto motivo di appello relativo alla contestata inversione dell'onere della prova.
Il motivo è infondato. La Corte di appello ha chiarito che la prova dei fatti addebitati sta nel rapporto ISVAP non contestato dalle parti. Ciò non può essere qualificato come inversione dell'onere della prova circa la sussistenza della giusta causa per la revoca.
Una volta acquisiti come noti i dati emergenti dal rapporto ISVAP spettava infatti a K.D.L.G. smentire i rilievi già citati in merito alla omissione e al ritardo degli interventi che gli amministratori e il Presidente avrebbero dovuto compiere per riportare la situazione gestionale di A. in un quadro di legalità e regolarità.
Con il quinto motivo si deduce omessa o insufficiente motivazione sulla non ammissione delle prove erroneamente giudicate tardive o non rilevanti dal Tribunale.
Il motivo appare inammissibile dato che il ricorrente avrebbe dovuto riproporre il testo dei capitoli ritenuti rilevanti ma non ammessi dai giudici del merito al fine di consentire a questa Corte il controllo sulla motivazione di irrilevanza delle prove testimoniali resa dalla Corte di appello in evidente collegamento ai precedenti riferimenti al rapporto ISVAP e alla sentenza del Tribunale di Roma n. 1109/01 e alle relative affermazioni di responsabilità a carico degli amministratori e del Presidente K.D.L.G.. Non può non richiamarsi inoltre la giurisprudenza di legittimità secondo cui la censura contenuta nel ricorso per cassazione relativa alla mancata ammissione della prova testimoniale è inammissibile se il ricorrente, oltre a trascrivere i capitoli di prova e ad indicare i testi e le ragioni per le quali essi sono qualificati a testimoniare - elementi necessari a valutare la decisività del mezzo istruttorie richiesto - non alleghi e indichi la prova della tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione e la fase di merito a cui si riferisce, al fine di consentire ex actis alla Corte di Cassazione di verificare la veridicità dell'asserzione (Cass. civ. sez. 11a, n. 9748 del 23 aprile 2010).
Con il sesto motivo di ricorso si deduce la violazione del principio dell'onere della prova rilevando che competeva alla società provare la sussistenza di una giusta causa di revoca riferibile al Presidente del Consiglio di amministrazione.
Il motivo non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata che si basa sul riscontro di una compromissione del rapporto fiduciario dei soci con il Presidente del Consiglio di amministrazione derivante dalla situazione descritta nel rapporto dell'ISVAP. Si ribadisce quindi quanto affermato relativamente al quarto motivo di ricorso circa l'insussistenza di un'inversione dell'onere della prova relativamente all'esistenza della giusta causa per la revoca che deve ritenersi presupposta dagli accertamenti evidenziati nel rapporto ISVAP e ben conosciuta al K.D.L.G..
Con il settimo motivo di ricorso si deduce la violazione del principio generale della specificità delle contestazioni anche in relazione al diritto di esercitare pienamente la propria difesa.
Anche questo motivo non coglie la ratio decidendi della sentenza non essendo stata accertata, nei confronti di K.D.L.G. T., la commissione di comportamenti giustificativi di una sanzione ma è stata invece ritenuta sussistente una giusta causa di revoca dall'incarico di Presidente del Consiglio di amministrazione, operante all'esito della verifica del venir meno del rapporto di fiducia con la compagine societaria. Risulta quindi fuorviante il ricorso ad analogie con la normativa che disciplina i modi di contestazione dei comportamenti legittimanti l'irrogazione di una sanzione dato che qui è stata chiamata l'assemblea a deliberare sulla possibile revoca ritenendo che la stessa potesse essere legittimata dall'esistenza di una giusta causa ben conosciuta dal K.D.L.G.. Appare pertinente il richiamo alla giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di revoca dell'amministratore di società, la giusta causa può essere sia soggettiva che oggettiva, purchè si tratti di circostanze o fatti sopravvenuti, idonei ad influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto; nel secondo caso, essa consiste in situazioni estranee alla persona dell'amministratore, quindi non integranti un suo inadempimento e sempre che ricorra un quid pluris, cioè l'esistenza di situazioni tali da elidere il citato affidamento (Cass. civ. 23557 del 12 settembre 2008) riposto sulle attitudini e le capacità dell'organo di gestione, in modo tale da poter fondatamente ritenere che siano venuti meno, in capo allo stesso, quei requisiti di avvedutezza, capacità e diligenza di tipo professionale che dovrebbero sempre contraddistinguere l'amministratore di una società di capitali (Cass. civ. n. 16526 del 5 agosto 2008).
Con l'ottavo motivo si deduce la violazione dei principi generali in materia di responsabilità.
Va ribadito, ancora una volta, a tale proposito, che non si tratta, nella specie, di affermare la responsabilità dei nuovi amministratori per fatti compiuti o comunque ascrivibili ai precedenti ma di verificare se sussista una culpa in vigilando rispetto a delibere che hanno avuto effetto nel periodo di espletamento del mandato dei nuovi amministratori nonchè di verificare se sussista una responsabilità per non aver attivato gli atti e i comportamenti necessari a riportare la società in una situazione di legalità e regolarità gestionale.
Con il nono motivo di ricorso si deduce la violazione dell'art. 2909 c.c.. Il ricorrente lamenta il rovesciamento del contenuto della sentenza del Tribunale di Roma n. 1109/2003 che avrebbe escluso l'imputabilità agli amministratori delle irregolarità preesistenti.
Il motivo è infondato. Infatti la sentenza invocata ha avuto ben altro contenuto rispetto a quanto dedotto dal ricorrente e cioè che i fatti determinanti le disfunzioni della società, pur esistenti, non erano imputabili agli amministratori. Al contrario la sentenza del Tribunale n. 1109/2003, pur ritenendo la responsabilità di questi ultimi (per quanto si è detto discutendo il secondo motivo di ricorso), relativamente alla situazione di grave irregolarità della società, ha escluso che potessero riscontrarsi dei danni risarcibili da parte degli amministratori in favore della società come conseguenza della predetta responsabilità a loro ascrivibile.
Con il decimo motivo si deduce, infine, la violazione del D.L. n. 150 del 1993, artt. 4 - 8, (convertito in L. n. 444 del 1994). Il ricorrente contesta che la nomina degli amministratori di competenza del presidente, ex art. 4 del citato D.L., ma deliberata dall'assemblea, possa essere ritenuta valida pur in presenza della sanatoria disposta dalla L. n. 444 del 1994.
La tesi interpretativa del ricorrente non è fondata, come chiaramente è stato ribadito dai giudici dell'appello, in quanto le disposizioni del D.L. n. 150 del 1993, hanno perso efficacia ex tunc per effetto della mancata conversione in legge. La successiva reiterazione dei decreti-legge e la sanatoria contenuta nella legge di conversione n. 444/1994 sono irrilevanti nel caso in esame in cui non si chiede di riconoscere l'efficacia di un atto posto in essere in forza del decreto legge vigente ratione temporis ma di far retroagire la norma di conversione, che dispone l'invalidità degli atti adottati dall'assemblea sulla base della disciplina codicistica, sino a coprire anche i decreti-legge non convertiti in legge.
Il ricorso va pertanto respinto con condanna al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 7.200 di cui 200 per spese.