Svolgimento del processo
Il Tribunale di Genova, con sentenza depositata il 13 ottobre 2003, accolse la domanda con cui il sig. Ol.Co.An. aveva rivendicato la proprietà di 330.000 azioni della Immobiliare P. s.p.a., cedutegli dal fratello G.. Dopo aver dichiarato privo di effetto il decreto di ammortamento di una parte di tali azioni in precedenza emesso su istanza del medesimo sig. O.G. C., il tribunale accertò che costui era estraneo alla compagine sociale e, di conseguenza, rigettò le domande da lui proposte sia per far dichiarare nulla, o annullare, la deliberazione con cui l'assemblea aveva deciso di prorogare il termine di durata della società, sia per far accertare che la società si trovava in situazione di scioglimento, sia per far condannare gli amministratori che si erano nel tempo succeduti, il sig. Ol.Co.An. e la sig.ra P.L.R., al risarcimento del danno derivato dalla mancata instaurazione del procedimento di liquidazione.
Chiamata a pronunciarsi sul gravame proposto dal sig. O.C. G., la Corte d'appello di Genova, con sentenza resa pubblica il 19 novembre 2007, confermò la decisione impugnata.
La corte genovese, come già aveva fatto il giudice di primo grado, basò la propria statuizione sul contenuto di una scrittura privata, risalente al 21 maggio 1991, nella quale il sig. O.G. C. aveva riconosciuto di aver trasferito al fratello An. la nuda proprietà delle azioni in contestazione, di averne ricevuto il corrispettivo e di essersi impegnato a trasferire anche la proprietà piena non appena fosse stata definita una diversa vertenza in atto con la sorella P. e comunque non oltre una predeterminata scadenza. A tale dichiarazione, secondo la corte d'appello, doveva essere attribuita valenza confessoria, pur non essendo essa esplicitamente indirizzata alla controparte, perchè il suo carattere recettizio poteva desumersi dal contenuto della medesima dichiarazione, e perchè questa appariva idonea ad integrare gli estremi di una vera e propria confessione, e non di una mera dichiarazione negoziale ricognitiva, in quanto volta non già a qualificare gli effetti giuridici di precedenti negozi bensì ad affermare elementi di fatto contrari all'interesse del dichiarante.
Aggiunse infine la corte che correttamente il tribunale aveva dichiarato inammissibile la querela di falso proposta dal sig. O.C.G., con riguardo alla predetta scrittura, giacchè l'affermazione dell'appellante, secondo cui vi sarebbe stato un riempimento abnorme del documento firmato in bianco, appariva affatto generica e le risultanze processuali inducevano invece a ritenere che si fosse in presenza della denuncia di un riempimento contra pacta (non già absque pactis), come tale non suscettibile di dar corso da un procedimento per querela di falso.
Per la cassazione di tale sentenza il sig. O.C.G. ha proposto ricorso, articolato in sei motivi.
Si sono difesi con un medesimo controricorso la società Immobiliare P. e la sig.ra P., e con un controricorso separato il sig. Ol.Co.An., il quale ha proposto a propria volta un motivo di ricorso incidentale condizionato.
L'Immobiliare P. ha poi anche depositato una memoria.
Motivi della decisione
1. I ricorsi proposti avverso la medesima decisione debbono essere riuniti, come prescrive l'art. 335 c.p.c..
2. Col primo motivo il ricorrente principale, nel dolersi della violazione degli artt. 1335, 2730 e 2735 c.c., richiama la necessità che la confessione, per poter assurgere al valore di prova legale, debba essere indirizzata alla controparte e, pertanto, essere espressa in una dichiarazione di carattere recettizio. Ma, a parere del ricorrente, la dichiarazione di cui si è discusso in causa tale carattere non ha, perchè non lo si ricaverebbe da alcuna delle espressioni adoperate dal dichiarante e perchè, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte d'appello, la recettizietà non potrebbe esser desunta solo dal fatto che la dichiarazione giovi alla controparte.
La censura non coglie nel segno.
Può convenirsi, in via di principio, sul rilievo secondo cui la circostanza che una determinata dichiarazione a contenuto confessorio giovi ad un soggetto diverso da dichiarante non basta, di per sè sola, a far ritenere che quella dichiarazione sia stata indirizzata a quest'ultimo, ben potendo una confessione esser fatta ad un terzo, come si evince anche dal citato art. 2735, c.c., comma 2. Ciò, tuttavia, non toglie che, in concreto, il carattere recettizio di una simile dichiarazione possa essere desunto anche da elementi ad essa intrinseci, pur in difetto di un'espressa indicazione del destinatario, e che tra tali elementi sia logicamente valutabile l'assenza di qualsiasi possibile destinatario diverso da colui che della dichiarazione confessoria si gioverebbe. Ed è appunto questo tipo di valutazione che, nel caso in esame, la corte territoriale ha compiuto, non limitandosi a rilevare l'interesse del sig. An. O.C. ad avvalersi dei fatti dichiarati dal fratello nell'atto da quest'ultimo sottoscritto, ma aggiungendo che, sul piano logico, il contenuto della predetta dichiarazione portava ad escludere che essa potesse esser destinata a qualsivoglia altro soggetto.
Si tratta di un apprezzamento attinente all'interpretazione della risultanza documentale acquisita in causa, come tale rimessa al giudice di merito e perciò non sindacabile ad opera di questa corte.
3. Anche il secondo motivo del ricorso principale si riferisce alla dichiarazione sopra menzionata ed è volto a sostenere l'inadeguatezza della motivazione con cui la corte d'appello ha ravvisato in detta dichiarazione gli estremi oggettivi di una confessione.
Il motivo è però inammissibile, perchè non rispettoso della prescrizione contenuta nell'art. 366-bis c.p.c. (applicabile ratione temporis nella presente causa), secondo cui la formulazione della censura ipotizzata nell'art. 360 c.p.c., n. 5, deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr., ex multis, Cass., sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603).
4. Ancora ai citati artt. 2730 e 2735 c.c., oltre che all'art. 1988 c.c., si fa riferimento nel terzo motivo del ricorso del quale si sta trattando, in cui si sostiene che il contenuto ricognitivo di negozi giuridici, eventualmente ravvisabile in una dichiarazione, non comporta necessariamente la confessione dei fatti storici costitutivi di quei negozi.
Anche tale doglianza risulta però inammissibile, per la decisiva ed assorbente ragione che la corte d'appello non ha mai affermato un principio di diritto contrario a quello che il ricorrente invoca - ossia che ogni ricognizione dell'esistenza di determinati effetti giuridici implichi anche, per ciò stesso, una confessione dei fatti storici dai quali dovrebbe trarre origine il negozio produttivo di quegli effetti -, essendosi invece limitata a constatare che, nello specifico caso sottoposto al suo esame, la dichiarazione sottoscritta dall'odierno ricorrente ha un contenuto confessorio apprezzabile sub specie facti. Ed anche qui si tratta di una valutazione di merito, non sindacabile in sede di legittimità. 5. Identiche conclusioni valgono per il quarto motivo del medesimo ricorso, sempre riferito alla più volte richiamata dichiarazione confessoria e volto ulteriormente a lamentare la violazione dei citati artt. 2730 e 2735 c.c., accanto a quella dell'art. 230 c.p.c..
Che il carattere per certi aspetti sintetico delle dichiarazioni espresse in detta dichiarazione determini, in concreto, un difetto di specificità della confessione è, infatti, affermazione meramente postulata nel ricorso, per dimostrare la quale occorrerebbe procedere ad un'analisi e ad un'interpretazione del contenuto dell'atto prodotto in causa, che sono state già svolte dal giudice di merito e che esulano dai limiti del giudizio di legittimità. 6. Anche col quinto motivo il ricorrente principale insiste nel denunciare la violazione dei citati artt. 2370 e 2375, lamentando che la corte d'appello, dopo aver ravvisato nella dichiarazione di cui si è discusso una confessione sub specie facti, abbia poi recepito le qualificazioni giuridiche in essa contenute senza alcuna autonoma valutazione in punto di diritto.
Nemmeno in questo caso la doglianza appare meritevole di accoglimento.
I fatti di cui la confessione ha fornito prova sono il passaggio di mano delle azioni della società di cui trattasi dall'odierno ricorrente al fratello (in forza di un accordo col quale le parti hanno inteso trasferire prima la nuda proprietà e poi la proprietà piena) ed il versamento del corrispettivo ad esse riferito. La qualificazione giuridica di tali fatti in termini idonei a configurare un trasferimento della titolarità delle medesime azioni e, di conseguenza, dei diritti e delle facoltà ad esse inerenti, è così ovvia - in difetto dell'allegazione di specifici di elementi che possano condurre ad una valutazione diversa - da non richiedere una particolare argomentazione ad opera del giudicante; o, se lo si preferisce, da rendere implicita siffatta qualificazione nelle conclusioni stesse che il giudicante ha tratto in esito all'esame complessivo della vicenda, senza che si possa assolutamente in ciò ravvisare la violazione delle norme invocate dal ricorrente.
7. L'ultimo motivo del ricorso principale, nel denunciare la violazione dell'art. 221 c.p.c., sposta l'attenzione sulla ritenuta inammissibilità della querela di falso proposta nei riguardi del più volte menzionato documento a contenuto confessorio sottoscritto dal sig. O.C.G., il quale ha sostenuto che detto documento era stato da lui firmato in bianco e poi riempito abusivamente dal fratello.
Muovendo dalla premessa che la querela di falso non è ammissibile quando il querelante abbia denunciato il riempimento di un foglio firmato in bianco in difformità da precedenti patti tra le parti al riguardo (contra pacta), ma invece lo è quando sia stato denunciato il riempimento di al di fuori di ogni patto (sine pactis o absque pactis), il ricorrente afferma che, avendo egli a suo tempo riferito di documenti da lui sottoscritti in bianco e consegnati al fratello a fronte della generica prospettazione di situazioni d'urgenza non ben determinate, inerenti all'amministrazione del patrimonio familiare, si verterebbe non già nella prima bensì nella seconda delle due richiamate fattispecie. Avrebbe perciò errato la corte d'appello nel confermare la statuizione d'inammissibilità della querela emessa dal tribunale.
La doglianza non è fondata.
Non è controverso il principio secondo il quale la denunzia di abusivo riempimento di un foglio firmato in bianco richiede l'esperimento della querela di falso, ai sensi dell'art. 2702 c.c., nel caso in cui il riempimento stesso sia avvenuto senza che il suo autore sia stato autorizzato dal sottoscrittore con un patto preventivo, mentre non è richiesto l'esperimento della querela nell'ipotesi in cui il riempimento sia stato eseguito in modo difforme da quello consentito dall'accordo intervenuto preventivamente. Ed è stato chiarito che la diversa disciplina si spiega perchè nella prima ipotesi l'abuso incide sulla provenienza e sulla riferibilità della dichiarazione al sottoscrittore (e ciò può aversi anche quando la difformità della dichiarazione rispetto alla convenzione sia tale da travolgere qualsiasi collegamento tra la dichiarazione e la sottoscrizione: Cass. 8 novembre 2002, n. 15699, e Cass. 21 agosto 2007, n. 18059), mentre la seconda ipotesi si traduce in una mera disfunzione interna del procedimento di formazione della dichiarazione medesima, in relazione allo strumento adottato (mandato ad scribendum), derivandone solo la non corrispondenza tra ciò che risulta dichiarato e ciò che si intendeva dichiarare (si vedano in tal senso, tra le altre, Cass. 7 febbraio 2006, n. 2524, e Cass. 15 maggio 2007, n. 11163).
Ora è ben vero che, come già accennato, possono darsi situazioni nelle quali, pur esistendo un qualche patto relativo al futuro di riempimento del documento sottoscritto in bianco, il successivo riempimento di esso sia privo di un qualsiasi significativo collegamento con tale patto; nel qual caso la querela di falso appare ammissibile. Ma un corollario necessario di questo principio è quello per cui, in simili casi, ove si riconosca l'esistenza storica di una qualche patto di riempimento, compete a chi intende proporre la querela l'onere di allegare (e successivamente di provare) che i termini del patto siano così lontani e diversi dal contenuto del foglio, poi riempito, da scindere ogni possibile legame col patto stesso.
Nella fattispecie in esame, come si desume dalla sentenza d'appello, già il giudice di primo grado aveva invece rilevato un'inammissibile genericità della prospettazione a tal proposito formulata dall'odierno ricorrente, definita "tale da non consentirne la valutazione in concreto"; ed ugualmente è stato sottolineato come la deduzione della genericità del patto di riempimento - genericità dalla quale ora si vorrebbe far derivare l'impossibilità di configurare il riempimento medesimo come contra pactum - sia stata formulata solo in corso di causa, dopo che il sig. O.G. C. aveva inizialmente negato di ricordare le ragioni per le quali aveva sottoscritto il documento e poi, in altra sede, aveva affermato l'esistenza di un patto dal contenuto diverso.
Va allora affermato il principio per cui, in presenza di un foglio firmato in bianco sulla base di un preesistente accordo tra il firmatario e colui che ha poi proceduto a riempire il foglio, l'incertezza circa i termini di detto accordo preclude l'ammissibilità della querela di falso al sottoscrittore che voglia contestare la riconducibilità a sè medesimo del contenuto della scrittura.
8. Il rigetto del ricorso principale rende non necessario l'esame di quello incidentale, proposto in via condizionata.
9. L'esito della causa comporta la condanna del ricorrente principale al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore sia dei controricorrenti Immobliliare P. e sig.ra P., che si sono difesi congiuntamente, sia dell'altro controricorrente sig. Ol.
C.A.. Tali spese vengono perciò liquidate, per ciascuna delle due suindicate posizioni, in Euro 4.200,00 (di cui 4.000,00 per onorari e 200,00 per esborsi), oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
P.Q.M.
La corte riunisce i ricorsi, rigetta quello principale, dichiara assorbito l'incidentale, e condanna il ricorrente principale al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in motivazione.