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Limiti di ammissibilità della prova testimoniale - Cass. sent. n. 8236 del 24.05.2012

Svolgimento del processo

Con atto notificato nel luglio del 1998 il sig. E.R. citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere le società S. P. Invest S s.p.a. (in prosieguo S. P. Invest) e S. P. IMI AM F s.p.a. (in prosieguo S. P. A. M.), nonchè il sig. R.G..

Riferì di aver stipulato nel dicembre del 1997 un contratto col quale aveva inteso affidare alla S. P. Asset Management la gestione di un miliardo e trecento milioni di lire, da investire prevalentemente in titoli azionari, e di avere pertanto consegnato tale somma al sig. R., quale promotore finanziario della S. P. Invest. Tanto l'una quanto l'altra società avevano però poi escluso di aver mai ricevuto notizia della stipulazione di tale contratto, e risultava che il sig. R. si fosse impadronito del denaro consegnatogli. L'attore perciò chiese che i convenuti, singolarmente o in solido, fossero condannati a risarcirlo del danno sofferto per la perdita della somma sopra indicata.

Il sig. R. restò contumace, mentre le due società convenute si costituirono per chiedere la reiezione della domanda proposta nei loro confronti.

Il 1 luglio 2005 il tribunale si pronunciò accogliendo solo le domande proposte nei confronti del sig. R. e della S. P. Invest, che furono perciò condannati a corrispondere all'attore la somma di Euro 671.393, oltre agli accessori ed alle spese di causa.

Chiamata a pronunciarsi sul gravame proposto dalla S. P. Invest, la Corte d'appello di Napoli lo rigettò con sentenza resa pubblica il 16 febbraio 2010.

La corte napoletana ritenne provata la consegna, da parte del sig. E. al promotore finanziario sig. R., della somma poi da quest'ultimo sottratta; e ciò dedusse sia dal comportamento processuale del medesimo sig. R., che non si era presentato a rendere l'interrogatorio deferitogli sul punto, sia dalle risultanze del processo penale al quale egli era stato sottoposto, sia dalle deposizioni di testimoni che, pur essendo legati all'attore da rapporti di parentela o affinità, non erano apparsi inattendibili, sia infine dalla documentazione che era stata a suo tempo consegnata al sig. E. per dimostrare l'avvenuto bonifico dell'anzidetta somma su un conto acceso presso la locale filiale dell'Istituto Bancario S. P. di Torino. Documentazione, questa, la cui genuinità era stata sì messa in dubbio da un funzionario della banca, escusso come testimone, ma che nondimeno presentava caratteri tali da far ritenere che essa provenisse dal predetto istituto bancario e che il sig. E. avesse perciò confidato nella sua autenticità, venendo così avallato anche il sospetto, già emerso nel corso del suaccennato procedimento penale, di una collusione tra il promotore disonesto e qualche funzionario della banca di riferimento.

La corte d'appello negò, inoltre, che la produzione dell'evento lesivo potesse essere in tutto o in parte ascritta a colpa dello stesso danneggiato, per le anomale modalità con le quali il denaro era stato da costui consegnato al promotore. Escluso, infatti, che le disposizioni al riguardo emanate dalla Consob configurino un obbligo, o un onere, a carico del cliente il quale da quelle medesime disposizioni dovrebbe esser tutelato, secondo la corte territoriale il carattere manifestamente truffaldino del comportamento del promotore, nel caso di specie, valeva ad escludere qualsiasi possibile addebito di corresponsabilità per il cliente ingannato.

Avverso tale sentenza la S. P. I ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi e successivamente illustrato con memoria, al quale il sig. E. ha replicato con controricorso del pari poi corredato da una memoria.

Nessuna difesa hanno svolto in questa sede la S. P. AM ed il sig. R..

Motivi della decisione

1. Col primo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell'art. 115 c.p.c., e vizi di motivazione dell'impugnata sentenza.

1.1. La doglianza si appunta sull'accertamento compiuto dalla corte d'appello in ordine all'effettiva consegna al promotore finanziario della somma che il sig. E. intendeva fosse investita e della quale, invece, lo stesso promotore si era illecitamente impossessato.

A parere della ricorrente la prova di tale consegna non sarebbe stata affatto raggiunta, o comunque sarebbe carente la motivazione in base alla quale la corte d'appello ha reputato che quella prova vi fosse.

Il discorso ruota intorno ad un documento prodotto in causa dall'attore, apparentemente proveniente dall'Istituto Bancario S. P. di Torino (filiale di (OMISSIS)), che avrebbe dovuto attestare l'avvenuto bonifico della somma di cui si discute. Ma la ricorrente contesta che quel documento possa assolvere ad una siffatta funzione probatoria, giacchè il funzionario della banca escusso come testimone ne ha negato l'autenticità, escludendo che il numero di conto ivi indicato corrisponda ad un conto intestato al sig. E. e che su quel conto sia stata compiuta l'operazione di bonifico di cui si tratta. Elementi, questi, in presenza dei quali la corte di merito non avrebbe potuto - sempre secondo la ricorrente - considerare provato che quella somma fosse mai stata consegnata dal sig. E. al promotore finanziario.

1.2. La censura non coglie nel segno.

L'impugnata sentenza ha ben chiarito che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa della S. P. Invest, il sig. E. non ha mai affermato di avere effettuato egli stesso il bonifico bancario riportato nel menzionato documento, nè quindi che la consegna della somma di denaro da lui fatta al promotore finanziario a scopo d'investimento sia avvenuta appunto mediante tale bonifico. Egli sostiene, invece, di aver effettuato la consegna del denaro in contante; e la corte territoriale ha reputato che le deposizioni testimoniali raccolte, il comportamento processuale tenuto dal medesimo promotore e le risultanze del processo penale al quale costui è stato sottoposto confermino tale circostanza. Dal documento che attesta l'apparente bonifico bancario la medesima corte d'appello non ha poi affatto dedotto che quel bonifico sia stato realmente eseguito, nè ha avallato la genuinità di detto documento, ma ha posto in luce che esso risultava comunque proveniente dalla filiale dall'Istituto Bancario S. P. di Torino, traendone la conseguenza che il sig. E. era stato verosimilmente tratto in errore circa la rispondenza al vero di quanto ivi indicato. Siffatto rilievo sottintende, evidentemente, una ricostruzione degli eventi diversa da quella cui sembra riferirsi la ricorrente: ossia che il documento bancario di cui si discute fu predisposto - forse anche, ipotizza il giudice di merito, con la complicità di qualche dirigente della locale filiale bancaria - per meglio trarre in inganno il sig. E., dando l'apparenza di una qualche ufficialità alla consegna della somma di denaro in contanti da quest'ultimo affidata in gestione al promotore.

Ora è noto che nel giudizio di legittimità non è possibile mettere in discussione la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito, nè il livello di maggiore o minore persuasività di tale ricostruzione, in rapporto alle risultanze istruttorie acquisite al processo, oppure la prevalenza attribuita all'una o all'altra di queste risultanze, salvo che si evidenzino veri e propri vizi logici nella motivazione dell'impugnata sentenza su un fatto controverso di decisiva importanza.

Ma, argomentando sulla base di una ricostruzione fattuale diversa, ed in definitiva attribuendo al più volte citato documento bancario una valenza ed un significato probatorio assai più rilevante di quello che il giudice di merito gli ha riconosciuto, la ricorrente prospetta una doglianza che attiene al merito e che non individua alcun vizio logico nè giuridico della sentenza impugnata. Essa perciò non può trovare accoglimento.

2. Come s'è già accennato, la corte d'appello ha fondato il proprio accertamento anche su alcune deposizioni testimoniali, motivando perchè le ha ritenute attendibili, benchè rese da persone legate all'attore da vincoli familiari.

La difesa della S. P. Invest sostiene, nel secondo motivo di ricorso, che in tal modo sarebbe stata violata la disposizione dell'art. 2721 c.c., la quale non ammette la prova per testimoni dei contratti di elevato valore economico; e lamenta che la corte territoriale abbia considerato attendibili e coerenti delle prove che tali invece non sono.

Neppure in questo caso la doglianza è fondata.

2.1. I limiti di ammissibilità della prova testimoniale stabiliti, con riferimento ai contratti, dall'art. 2721 c.c. e seg., non sono infatti riferibili ai meri fatti storici, sia pur connessi con la stipulazione di un contratto, bensì all'esistenza del contratto stesso (cfr., ex multis, Cass. 15 luglio 2009, n. 16538). Nel caso in esame non è però in discussione il fatto che il sig. E. avesse stipulato, per il tramite del promotore finanziario sig. R., un contratto d'investimento finanziario, bensì il fatto storico dell'avvenuta consegna a detto promotore della somma di denaro della quale quello si sarebbe poi appropriato. Fatto rilevante non ai fini dell'esistenza del contratto, ma per la dimostrazione del danno derivato dall'illecito imputabile a detto promotore e del quale, di conseguenza, anche la società preponente è stata chiamata a rispondere. La prova di quel fatto non trova dunque limite nell'invocata disposizione dell'art. 2721 c.c., e ciò rende irrilevante la circostanza che la corte d'appello non abbia espressamente motivato sul punto.

Quanto, poi, al giudizio di attendibilità espresso dalla corte d'appello in ordine alle anzidette deposizioni testimoniali, corroborato da altre risultanze istruttorie, nuovamente si tratta di un tipico esercizio di giurisdizione di merito, che non può essere in questa sede sindacato giacchè non è concesso al giudice di legittimità di prendere diretta cognizione del materiale probatorio e di operare perciò quell'esame completo del suo contenuto e quei confronti anche di dettaglio senza i quali ogni valutazione sarebbe arbitraria.

Giova solo aggiungere, per quel che riguarda i pretesi vizi di motivazione del provvedimento impugnato, che nessuna incongruenza si ravvisa nel fatto che la corte d'appello, dopo aver dato atto della rinuncia del sig. E. alla costituzione di parte civile nel processo penale celebratosi a carico del promotore finanziario sig. R., abbia fatto riferimento anche a quanto da quel processo è emerso per trame argomento di prova nella presente causa. La rinuncia alla costituzione di parte civile non esclude certo, infatti, che il sig. E. fosse tra le parti lese dei reati contestati all'imputato e che ciò di cui nell'anzidetto processo penale si è discusso abbia riguardato anche lui, o comunque sia valso a ricostruire il modus operandi del promotore in situazioni del genere di quelle qui in esame, sicchè non v'è illogicità alcuna nell'avervi fatto riferimento.

3. Nell'ultimo motivo di ricorso, oltre a lamentare di nuovo vizi di motivazione della sentenza impugnata, si denuncia la violazione di diverse disposizioni di legge: il D.Lgs. n. 415 del 1996, art. 23, il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 31, e gli artt. 1176, 1227 e 1375 c.c..

La ricorrente ripropone la tesi secondo cui le anomale modalità con le quali il sig. E. affidò al promotore finanziario il denaro destinato all'investimento, in contrasto con le prescrizioni poste al riguardo dalla normativa di settore, implicherebbero l'attribuzione al cliente della colpa esclusiva, o almeno concorrente, per quanto poi accaduto in suo danno. Avrebbe dunque errato la corte d'appello nel non considerare che il versamento in contanti di una somma così elevata, senza adeguata documentazione di supporto, manifestava l'esistenza di un'illecita cooperazione tra promotore e cliente, il comportamento del quale non risultava perciò conforme al dovere di correttezza e buona fede. Nè, secondo la ricorrente, è ragionevole affermare che il sig. E. sia stato solo una vittima dei raggiri posti in essere dal sig. R., volta che egli neppure aveva provveduto a denunciare penalmente il fatto e non aveva insistito nel costituirsi parte civile nel processo penale a carico del medesimo sig. R..

3.1. Neppure questo motivo di ricorso è accoglibile.

La giurisprudenza di questa corte ha chiarito che la mera allegazione del fatto che il cliente abbia consegnato al promotore finanziario somme di denaro con modalità difformi da quelle con cui quest'ultimo sarebbe legittimato a riceverle non vale, in caso d'indebita appropriazione di dette somme da parte del promotore, ad interrompere il nesso di causalità esistente tra lo svolgimento dell'attività del promotore finanziario e la consumazione dell'illecito, e non preclude, pertanto, la possibilità d'invocare la responsabilità solidale dell'intermediario preponente; nè un tal fatto può essere addotto dall'intermediario come concausa del danno subito dall'investitore in conseguenza dell'illecito consumato dal promotore, al fine di ridurre l'ammontare del risarcimento dovuto, perchè la richiamata normativa è destinata a tutelare gli interessi del risparmiatore e non può essere quindi interpretata nel senso che da essa derivi un onere di diligenza a carico del medesimo, la cui violazione gli sia addebitabile a titolo di colpa concorrente o esclusiva (cfr. Cass. 7 aprile 2006, n. 8229, e Cass. 24 luglio 2009, n. 17393).

Ad una diversa conclusione è dato pervenire soltanto qualora emerga la prova della collusione, o quantomeno della fattiva acquiescenza, del cliente alla violazione delle regole di condotta da parte del promotore (cfr. Cass. n. 17393/09, cit.), o comunque quando le circostanze del caso in esame siano tali da implicare che il dovere di comportarsi secondo buona fede e di non pregiudicare ingiustamente le ragioni dell'altro contraente avrebbe imposto al cliente di adottare maggiore diligenza, non prestandosi al compimento di operazioni anomale quando egli sia perfettamente a conoscenza, per personale e pluriennale esperienza, del complesso iter funzionale alla sottoscrizione dei programmi di investimento (cfr. Cass. 11 giugno 2009, n. 13529). Ma, perchè ciò accada, non è sufficiente la mera consapevolezza da parte dell'investitore della violazione delle regole di comportamento cui il promotore avrebbe dovuto attenersi per la tutela dei risparmiatori, occorrendo invece che i rapporti tra promotore ed investitore presentino connotati di anomalia, se non addirittura di connivenza o di collusione in funzione elusiva della disciplina legale; e spetta all'intermediario l'onere di provare che l'illecito sia stato consapevolmente agevolato in qualche misura dall'investitore (cfr. Cass. 19 marzo 2010, n. 6708), non potendo la collusione o la consapevole e fattiva acquiescenza del cliente all'illecito essere presunte sulla base della sola circostanza che l'equivalente pecuniario dell'investimento sia stato conferito con modalità difformi da quelle previste dal regolamento Consob (cfr. Cass. 25 gennaio 2011, n. 1741), ma essendo invece necessario che detta circostanza si accompagni con altri elementi significativi, quali ad esempio il numero e la ripetizione delle operazioni poste in essere con modalità irregolari, la durata nel tempo del rapporto tra investitore e promotore, il valore complessivo delle operazioni poste in essere, l'esperienza acquisita dal cliente nell'investimento in titoli finanziari, ed in particolare la sua conoscenza del complesso iter funzionale alla sottoscrizione di programmi di investimento (cfr. Cass. 24 marzo 2011, n. 6829).

Non può dirsi che, nel caso in esame, la corte d'appello abbia disatteso tali principi o ne abbia fatto cattiva applicazione.

E' fuor di dubbio che le modalità di consegna del denaro al promotore, da parte del sig. E., siano state difformi da quelle previste dalla normativa di settore, giacchè l'art. 14, comma 9, dell'allora vigente regolamento Consob n. 5388 del 1991 già prescriveva che il promotore potesse ricevere dal cliente esclusivamente titoli di credito non trasferibili intestati all'intermediario o a lui girati dal cliente; e può convenirsi con la ricorrente sul carattere quanto meno insolito della consegna in contanti di una somma così elevata. Ma questo solo elemento non è apparso sufficiente a persuadere la corte territoriale dell'esistenza di quella situazione di consapevole cooperazione e di fattiva acquiescenza all'illecito denunciata dalla ricorrente, la quale nessuna altra prova ha fornito in proposito, avendo anzi la stessa corte posto in evidenza come le caratteristiche truffaldine della condotta del promotore, quali emerse anche nel corso del più volte ricordato processo penale, inducessero a credere che il sig. E., lungi dall'essere in collusione col sig. R., fosse stato da costui tratto in inganno; e si tratta di una valutazione di merito, in sè non illogica nè comunque in questa sede censurabile, essendosi già prima sottolineato come sia del tutto ragionevole trarre argomento nella presente causa anche da elementi desunti dal summenzionato processo penale.

E' poi appena il caso di aggiungere che l'eventuale violazione di norme pubblicistiche circa i limiti dell'uso del denaro contante nei pagamenti non assume rilievo alcuno in questa sede, trattandosi di norme dettate dall'ordinamento ad altri fini, la cui trasgressione non vale certo di per sè a dimostrare l'esistenza di una qualche intesa o di una qualche altra forma di connivenza tra cliente e promotore ai danni dell'intermediario.

4. Alla reiezione del ricorso fa seguito la condanna della società ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 10.000,00 per onorari e 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.