Svolgimento del processo
Con atto di citazione R.A.T. conveniva in giudizio M.R.M. e G.G. per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni subiti a seguito di un incidente stradale verificatosi il (OMISSIS) lungo la strada (OMISSIS) nel corso del quale, quale trasportata nell'auto condotta dal proprietario M., subiva gravissime lesioni personali a causa di uno scontro con la vettura del G.. Il giudizio, in cui si costituiva il G. eccependo la prescrizione, veniva dapprima cancellato dal ruolo ex artt. 181 - 309 c.p.c., quindi riassunto a cura della R., veniva interrotto per il decesso del G.. A seguito dell'ulteriore riassunzione a cura dell'attrice, si costituivano gli eredi del G. nonchè il M.. In esito al giudizio, il Tribunale di S.Maria Cv dichiarava la responsabilità concorrente del G. e del M., rispettivamente nella misura del 70% e del 30% e condannava gli eredi del primo ed il secondo, in proporzione, al risarcimento dei danni subiti dall'attrice, nella misura di Euro 286.691,54 ed Euro 122.867,80 oltre interessi e svalutazione.
Avverso tale decisione proponevano appello sia il M. sia gli eredi del G. con atti distinti ed in esito al giudizio in cui si costituivano gli eredi del M. nel frattempo deceduto, la Corte di Appello di Napoli con sentenza depositata in data 7 gennaio 2010 accoglieva l'appello del M., rigettando la domanda attrice nei confronti dello stesso, rigettava l'appello degli eredi del G..
Avverso la detta sentenza gli eredi G. hanno quindi proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi.
Motivi della decisione
Con la prima doglianza, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 519 e 521 c.c., in relazione all'art. 476 c.c., art. 110 c.p.c., i ricorrenti hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di Appello ha disatteso il motivo di appello con il quale essi avevano eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva per effetto della rinunzia all'eredità di G.G.. Infatti i giudici di secondo grado - così, in sintesi, la doglianza - avrebbero trascurato che loro costituzione in giudizio non rivelava alcuna volontà di accettare l'eredità, considerato che il G. non aveva espresso alcuna domanda riconvenzionale e che essi non intendevano ereditare debiti e si erano limitati a dare applicazione all'art. 110 c.p.c.. La censura è infondata. A riguardo, corre l'obbligo di premettere che il giudizio, interrotto a causa del decesso di G.G., veniva riassunto dall'originaria attrice, la quale riproponeva la domanda contenuta nell'atto introduttivo del giudizio. All'udienza fissata per la comparizione delle parti, si costituivano G.E., G.A. e C.T., i quali, qualificandosi espressamente come eredi di G.G. (la circostanza risulta dalla lettura dello stesso ricorso per cassazione), si riportarono alle precedenti difese del loro congiunto eccependo, in particolare, la prescrizione del diritto azionato e deducendo l'infondatezza nel merito dell'avversa domanda.
La premessa torna utile in quanto, a norma dell'art. 476 c.c., si ha accettazione tacita dell'eredità quando il chiamato all'eredità stessa compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede. Ciò posto, mette conto di richiamare l'attenzione sul fatto che G.E., G.A. e C. T., rispettivamente figli e coniuge del defunto, come tali chiamati all'eredità dello stesso al momento dell'apertura della successione, nel costituirsi in giudizio, non soltanto si qualificarono espressamente come suoi eredi, ma resistendo giudizialmente nei confronti del creditore del "de cuius" e contestando nel merito l'esistenza del diritto di credito risarcitorio azionato dalla R., compirono un atto che, nella consapevolezza della delazione dell'eredità, presupponeva necessariamente la loro volontà di accettare e che, d'altra parte, non avrebbero avuto il diritto di fare, nè tanto meno l'interesse, se non nella qualità di erede. In tal modo, essi realizzarono il paradigma normativo dell'accettazione tacita dell'eredità di cui all'art. 476 c.c.. Invero, la fattispecie acquisitiva della qualità di eredi venne a maturarsi a seguito di un fatto idoneo a dimostrare in modo incontrovertibile che essi non erano più soltanto dei meri chiamati all'eredità, avendo compiuto, con espressa allegazione della qualità di erede, un atto a tutela dell'originario patrimonio del de cuius incompatibile con la volontà di non accettare la vocazione ereditaria e che non rientrava tra gli atti che possono essere compiuti dal semplice chiamato all'eredità.
Deve pertanto condividersi la conclusione cui sono pervenuti i giudici di secondo grado e ritenersi non essere ostativa all'accettazione la precedente rinuncia all'eredità operata da C.T. e G.A., in quanto il chiamato all'eredità che vi abbia inizialmente rinunciato può ex art. 525 c.c., successivamente accettarla, in forza dell'originaria delazione, sempre che questa non sia venuta meno - circostanza che non risulta essere avvenuta nella specie - per l'effetto dell'acquisto compiuto da altro chiamato. Parimenti, non rileva la rinuncia all'eredità effettuata da G.E. dopo la avvenuta accettazione tacita operata con la costituzione in giudizio, stante il noto principio "semel heres, semper heres", in forza del quale chi abbia accettato l'eredità non può più rinunciarvi. La seconda doglianza, svolta dai ricorrenti, si articola essenzialmente attraverso due profili: il primo per violazione degli artt. 2947 e 2953 c.c., art. 22 preleggi, art. 151 c.p.; il secondo per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Ed invero, la sentenza impugnata - così scrivono i ricorrenti - sarebbe errata nella parte in cui è stata ritenuto applicabile il termine decennale sul presupposto del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna di G.G., trascurando da una parte l'applicabilità dell'art. 2947 c.c., comma 3, e dall'altra che l'amnistia di cui al D.P.R. 18 dicembre 1981, intervenuta prima dell'avviso ex art. 151 c.p.p., aveva impedito il formarsi del giudicato in ordine alla sentenza generica di condanna.
Entrambi i profili di doglianza sono infondati. In merito, vale la pena di premettere che il G. non propose appello avverso la sentenza n. 168/81 con cui il Pretore di Piedimonte Matese lo condannava per il reato di lesioni colpose aggravate ad un mese di reclusione ed al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, tra cui la R., da liquidarsi in separata sede, con la conseguenza che tale sentenza di condanna, con le sue statuizioni civili, come sottolinea la Corte territoriale, divenne res judicata per cui il regime di prescrizione del credito è ancorato al disposto dell'art.2953 cc secondo cui "i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni". Ciò premesso, deve osservarsi che il primo profilo di doglianza è infondato, alla luce dell'ormai consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui nel caso in cui il giudizio penale si sia concluso con una sentenza che contiene anche la condanna generica al risarcimento dei danni a carico del responsabile civile ed in favore del danneggiato costituitosi parte civile, la successiva azione volta alla quantificazione del danno è soggetta al termine decennale di prescrizione, ex art. 2953 c.c., con decorrenza dalla data in cui la sentenza di condanna sia divenuta irrevocabile, e non al termine di prescrizione di cui all'art. 2947 c.c., comma 3, atteso che la pronuncia di condanna generica, pur difettando dell'attitudine all'esecuzione forzata, costituisce una statuizione autonoma contenente l'accertamento dell'obbligo risarcitorio in via strumentale rispetto alla successiva determinazione del "quantum" (Cass. n. 4054/2009, n. 8154/03).
L'esistenza del giudicato in ordine alla condanna generica del dante causa degli odierni ricorrenti al risarcimento dei danni comporta, secondo l'esatta decisione sul punto del giudice di merito, che anche l'altro profilo della censura non possa essere accolto. Ed invero, premesso che le sentenze penali dibattimentali irrevocabili di condanna hanno efficacia esterna nei confronti dell'imputato e della parte civile e fanno stato nel giudizio civile nel quale si controverte intorno a un diritto il cui riconoscimento dipende dall'accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, deve osservarsi che le sentenze penali di condanna, ove non impugnate, così come è avvenuto nel caso di specie, indipendentemente dall'intervenuta promulgazione di un'amnistia, danno luogo alla formazione di un giudicato civile, come tale vincolante in ogni altro giudizio tra le stesse parti, nel quale si verta sulle conseguenze, anche diverse dalle restituzioni o dal risarcimento, derivanti dal fatto, la cui illiceità, ormai definitivamente stabilita per effetto della mancata tempestiva impugnazione, non può più venire in questione.
La terza doglianza, articolata sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1917 e 1304 c.c., L. n. 990 del 1969, artt. 18 e 19, art. 112 c.p.c., nonchè sotto il profilo della motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria, si muove dalla premessa che la stessa R. nell'atto introduttivo del giudizio aveva riconosciuto di aver già ricevuto, a titolo di risarcimento danni dalla Cidas, in varie soluzioni, somme diverse, l'ultima delle quali accettata con la dicitura "con il presente pagamento i sottoscritti intendono liberare la sola compagnia solvente assitalia riservandosi di agire per l'eventuale eccedenza nei confronti dell'assicurato". Ciò posto, la Corte di Appello avrebbe sbagliato quando ha disatteso l'eccezione di infondatezza della domanda attorea, per essere stata l'attrice già soddisfatta dalla compagnia assicuratrice del G., deducendo che tale circostanza riguardava soltanto il rapporto tra assicurato ed assicuratore. Al contrario la circostanza comportava che nessun risarcimento ulteriore era dovuto dall'assicurato, sia a causa della dichiarazione di approfittamento ex art. 1304 c.c., effettuata dal procuratore del G. sia perchè la riserva di agire per la differenza non era stata mai comunicata o notificata al G..
La censura, oltre che inammissibile in taluni profili, è infondata.
Ed invero, a parte l'inammissibilità per effetto della mancata osservanza dell'onere della specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il motivo si fonda, di cui all'art. 366 c.p.c., n. 6, nonchè per effetto del mancato assolvimento dell'onere di riportare -previa integrale trascrizione - il contenuto del documento transattivo (in quanto il ricorso per cassazione deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza impugnata ed a consentire l'apprezzamento da parte del giudice di legittimità della fondatezza di tali ragioni, verifica indispensabile nella specie occorrendo accertare i termini precisi dell'asserito accordo transattivo) la doglianza è infondata alla luce dell'orientamento di questa Corte, secondo il quale la transazione, fatta dal creditore con uno dei debitori in solido, giova agli altri che dichiarano di volerne profittare, solo in mancanza di diversa e contraria manifestazione di volontà del creditore, contenuta nella transazione stessa ovvero in una clausola aggiunta ad essa, atteso che il creditore può impedire che l'efficacia del negozio sia estesa agli altri condebitori. Pertanto nella transazione tra il creditore ed uno o più dei condebitori è perfettamente legittimo che sia inserita clausola che escluda la possibilità per gli altri condebitori, che non hanno partecipato alla transazione, di profittare della stessa, (cfr Cass. n. 4257/91).
Ed invero, se per il principio della autonomia negoziale (art. 1322 c.c.) è consentito alle parti di stabilire liberamente il contenuto del negozio, anche eventualmente alterandone gli effetti tipici, a fortiori, deve ritenersi che, in materia di assicurazione della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli, è certamente consentito al creditore danneggiato - che ritenga che la somma di cui alla transazione stipulata con l'assicuratore non abbia coperto la quota di danno eccedente il massimale e non abbia conseguentemente esaurito il suo credito risarcitorio - impedire con espressa dichiarazione che gli altri condebitori, possano in alcun modo profittare della transazione, alla quale non hanno partecipato.
Nè può ritenersi, in difetto di espressa previsione di legge, che la produzione di detto effetto impeditivo sia subordinata all'onere di darne comunicazione ai condebitori rimasti estranei alla transazione.
Con la quarta doglianza per violazione dell'art.112 epe in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, e violazione degli artt. 1226, 2056 e 2059 c.c., i ricorrenti lamentano che "tanto la sentenza di 1^ grado quanto quella del gravame, pur richiamando entrambe il dettato giurisprudenziale di cui alla sentenza SS.UU. 1712/95, se ne discostano applicando d'ufficio ed equitativamente gli interessi compensativi nella misura del 5% dalla data del reato alla pubblicazione della sentenza convertendoli successivamente alla pubblicazione in interessi legali moratori. Orbene, se gli interessi compensativi, per definizione, sono l'equivalente del danno subito per la mancata tempestiva corresponsione dell'equivalente pecuniario del bene danneggiato, esso danno deve essere richiesto, provato ed allegato dall'attore e non può essere liquidato ex officio" Inoltre, il tasso di interesse applicato sarebbe eccessivo perchè il tasso degli interessi compensativi non può essere determinato con criteri discrezionali ed equitativi in misura maggiore al tasso legale ed in assenza di prove ed è censurabile la condanna al pagamento del danno morale, non provato e liquidato dal giudice di prime cure con pronuncia equitativa in misura pari alla metà del danno biologico. I primi due profili, relativi alla liquidazione d'ufficio degli interessi compensativi, determinati equitativamente, sono entrambi infondati. Ed invero, come le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato nella sentenza 8520 del 05/04/2007, il risarcimento del danno da fatto illecito costituisce debito di valore e, in caso di ritardato pagamento di esso, gli interessi non costituiscono un autonomo diritto del creditore, ma svolgono una funzione compensativa tendente a reintegrare il patrimonio del danneggiato, qual'era all'epoca del prodursi del danno, e la loro attribuzione costituisce una mera modalità o tecnica liquidatoria. Il giudice del merito può quindi procedere alla liquidazione della somma dovuta a titolo risarcitorio e dell'ulteriore danno da ritardato pagamento, utilizzando la tecnica che ritiene più appropriata al fine di reintegrare il patrimonio del creditore (riconoscendo gli interessi nella misura legale o in misura diversa, superiore o inferiore, potendo utilizzare parametri di valutazione costituiti dal tasso medio di svalutazione monetaria o dalla redditività media del denaro nel periodo considerato. E' appena il caso di osservare inoltre che gli interessi compensativi, a differenza di quelli moratori, non vanno domandati - ed il giudice del merito è tenuto d'ufficio alla loro liquidazione - nascendo dal medesimo fatto generatore dell'obbligazione risarcitoria, che è un tipico debito di valore, ed essendo anch'essi finalizzati a reintegrare il patrimonio del danneggiato, qual'era all'epoca del prodursi del danno.
Inammissibile è infine l'ultimo profilo della quarta doglianza con cui il ricorrente lamenta che "sarebbe censurabile anche la condanna al pagamento del danno morale, non provato e liquidato dal giudice di prime cure con pronuncia equitativa in misura pari alla metà del danno biologico". Ed invero, l'inammissibilità deriva dalla novità della questione, che non risulta - alla luce della sentenza impugnata - aver mai costituito oggetto di specifica censura nell'atto di appello.
Resta da esaminare l'ultima doglianza, articolata sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. - secondo la quale la Corte territoriale avrebbe confermato la sentenza di primo grado e non avrebbe svolto deduzioni in ordine alla censura con cui era stata denunciata l'illegittimità della sentenza di primo grado nella parte in cui detraeva dalla somma di Euro 423.632,08 la somma di Euro 14.073,45 che l'attrice aveva dichiarato di aver già ricevuto.
Anche tale doglianza è inammissibile per difetto di autosufficienza.
A riguardo, torna opportuno premettere che, come risulta dalla lettura della sentenza impugnata, quest'ultima effettivamente non contiene il minimo accenno alla questione, che sarebbe stata sollevata dall'appellante sul punto. Con la conseguenza che i giudici di seconde cure avrebbero effettivamente omesso di pronunciarsi su di essa se la questione fosse stata dedotta come motivo di impugnazione avverso la sentenza di primo grado.
La premessa torna utile perchè, nel caso di specie, il ricorrente ha completamente mancato di riportare, nel ricorso per cassazione, previa trascrizione nei suoi esatti termini, il contenuto della doglianza, che avrebbe costituito il motivo di appello e sul quale la Corte avrebbe omesso di pronunciarsi. Ed è appena il caso di sottolineare che, pur configurando la violazione dell'art. 112 c.p.c., un error in procedendo, per il quale la Corte di Cassazione è giudice anche del "fatto processuale", non essendo tale vizio rilevabile d'ufficio, il potere-dovere della Corte di esaminare direttamente gli atti processuali non comporta che la medesima debba ricercarli autonomamente, spettando, invece, alla parte indicarli (Cass. 10593/08).
Ne consegue che in applicazione di questo principio la censura formulata deve essere dichiarata inammissibile. Considerato che la sentenza impugnata appare esente dalle censure dedotte, ne consegue che il ricorso per cassazione in esame, siccome infondato, deve essere rigettato, senza che occorra provvedere sulle spese in quanto la parti vittoriose, non essendosi costituite, non ne hanno sopportate.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Intestazione Sentenza Nuova Ricerca